Ella & John - The Leisure Seeker

di Paolo Virzì

Un rattoppo su una vecchia tovaglia

Un argomento molto difficile, ma che altre volte è stato trattata, per cui non restava che l'imbarazzo della scelta su che impronta dargli: commedia ? dramma ' grottesco ? etc etc. No, nulla di ciò, ma di tutto un po' il che equivale a niente. Si salvano due cose: l'interpretazione di Sutherland e quegli infiniti viadotti sull'acqua. Helen Mirren, bravissima attrice, qui è spesso sopra le righe sia nella personale interpretazione sia nella parte per lei scritta (sul copione). Sutherland invece è perfetto e forse per questo lei riesce ancora meno inserita nel contesto. I viadotti così ripetuti e marcati nella loro duplice forma di condurre in un luogo e di essere fragilissimi perchè sopra la superfice di un elemento liquido, sono la parafrasi azzeccatissima del loro viaggio, della loro vita ora. Tutto il resto è di livello inferiore, per gradi, ma inferiore. Buono l'argomento rapporto figli-genitori-vecchiaia : quella è la realtà che attende tutti; buono l'argomento rapporto conflittuale tra fratelli : è quella spesso la realtà che scoppia poi esibendo i diversi caratteri plasmati dai genitori. E poi si va più giù, dagli improbabili ragazzi che invece di essere teppisti, guardano le vecchie foto, ma intanto nello spettatore hanno creato un'aspettativa non corrisposta, al contrario dei teppisti incontrati sulla strada che oltretutto sembravano cartoni animati. Sul finale meglio sorvolare, come è meglio sorvolare sulla..."leggerezza" di una malata allo stato terminale, espressa qui in mod orribile proprio perchè lontano anni luce dalla dolorosa realtà. Che film è mai questo che manca di ironia, di romanticismo (vero), di cattiveria, di bellezza e persino di kitsch ? E' un rattoppo su di una vecchia tovaglia già usata.

Libere, disobbedienti e innamorate (in Between)

di Maysaloun Haumond

Ognuno stia alle regole del proprio ovile

Il fermo immagine col quale si chiude il film, non è, come lo era per “Thelma & Louise”, liricamente sospeso in quell’unico millesimo possibile di felicità nell’avventura della vita, ma

è il “punto e a capo”, quello che si deve mettere quando, fatte delle esperienze importanti, avendo imparato come funzionano le cose, si può ricominciare. Diversamente.

Le tre giovani hanno questa possibilità, dato che invece di essere con il F.I. sospese sopra un baratro, stanno semplicemente sedute su di un muretto ed hanno di conseguenza come ipotetica proiezione, la possibilità di vivere ancora. La domanda che pone questo racconto di tre giovani vite che devono ancora spaziare nel mondo, la domanda è: ma come si può vivere, conoscendo l’ineluttabilità dei limiti della propria libertà ?

Le attitudini, o tendenze affettive ed esistenziali delle tre donne, non sono una scoperta sconvolgente, di sconvolgente in questo racconto, non c’è nulla di sconosciuto o che non succeda altrove, è solo la corrente che percorre il filo spinato dell’ovile, che è diversa, ma diversa in ogni luogo a seconda della “caratterialità” di uomini e donne, persone, che hanno plasmato e costruito nei tempi, il proprio Paese. Sì, è un film sconvolgente, ma non per la sessualità lesbica, non per lo stupro, non per la cocaina sniffata, lo sconvolgente è nell’ipocrita esistenza di chi non è come loro, ma sa, fa, capisce e finge, anzi, riconosce il valore e non l’ipocrisia: la famiglia, che è per il matrimonio senza amore, il fidanzato che con le lodi ad Allāh cova in sè sentimenti abbietti e violenti, il compagno che finge quello che non è sapendo che il proprio legame è solo menzogna di se stesso. Queste sono le cose sconvolgenti che il regista mette in luce, in quanto esistono nell’accettazione totale e farisea “distinguendosi per un accentuato rigorismo etico e per uno scrupoloso formalismo nell'osservanza della legge”. Questi sono gli elementi ai quali le tre donne si ribellano, ognuna soffrendo in modo diverso, ma è quello il F.I. del film: quello della consapevolezza della sofferenza ineluttabile. Le interpretazioni femminili e le situazioni entro le quali si muovono, sono portate all’eccesso, una sottolineatura forte, e contrastano con la magmatica imperturbabilità della “normalità”. Qualche spiraglio che fa un po’ di luce in questo scenario, è solamente il lampo di un genitore più sensibile, ma è un po’ poco. Bella pure la muta solidarietà femminile allo stupro.

Un film che sbatte in faccia la realtà con molti primi piani di donne che hanno volti intensi, molto diversi dalla bellezza patinata e “cartonacea”  dei film Occidentali dove biondi, belli, aitanti trascinano il branco. La bellezza delle donne mediorientali, ha uno spessore quasi palpabile, mentre qui, i ruoli maschili, sono più neutri, non ci sono volti o loro aspetti che incuriosiscano. Gli ambienti sono poco trattati, la macchina da presa è sulle ragazze e il racconto non è sempre fluido nelle strategie che sceglie, ma è un buon film che riassume e rilancia chiedendo una smentita che non può esserci se non nella presa di coscienza di donne che comincino a capire cos’è la libertà negata.

La vendetta di un uomo tranquillo

di Raúl Arévalo

C’e sempre un buio oltre la luce

Quando si saltano i preamboli e si entra a piè pari nel contesto, se il contesto è forte, l’emozione deve essere all’altezza; se il contesto è forte, l’emozione deve colpire in modo crudo e nudo, si saltando i preamboli e si toglie ogni minimo fronzolo: è così che comincia questo film.
La macchina da presa, il nostro sguardo, noi, siamo lì, addosso al personaggio, non è solo una ripresa di quinta, gli stiamo addosso come il fiato e il sudore; con lui condividiamo la tensione dell’attesa, l’adrenalina della fuga, la guida disperata, la violenza dello schianto. Tutto questo, porta al carcere, ma di questa vita di Curo, poco si sa, solo qualche flash per quel filo che lo tiene in vita: Ana, la sua compagna. E’ così con una serie di impatti sonori violenti, di inquadrature strette, di eventi che si intercalano nel tempo, su sguardi senza speranza , è così che entriamo nella storia.  C’è poco di ambiente, la coreografia è strettamente funzionale all’economia del racconto, non c’è nessun cedimento o compiacenza; in questo film, pian piano tutto s’incentra sui due personaggi che stanno in antitesi e nello svolgimento, carambolano, come l’auto incidentata e ognuno compare per quello che è veramente, ma… dentro: il buio oltre la luce. Se Curo è l’intransigente, Josè è il blando, ma se accade l’imprevedibile, quello che era protetto dal buio, bene o male che sia, schizza fuori inarrestabile. Così accade.
Josè ha subito una violenza che nessuno degli altri personaggi poteva conoscere e per quest'ignoranza, ne vengono travolti; anche Curro che nel momento stesso in cui si rende conto della potenza del male di un uomo tranquillo, è come sorpreso tanto da sembrare frastornato, sopraffatto, incapace di sottrarsi, lui ex-galeotto violento per antonomasia, alla violenza di un uomo pacifico per vocazione, non sa porre freno. I pochi dialoghi hanno un peso e uno spessore più ineluttabile di qualsiasi parola e i due uomini diventano come due automi nel procedere di ruoli invertiti nelle azioni che si consumano.
E’ un film che conferma null’altro che una frase famosa: “La cattiveria dei buoni è pericolosissima (Giulio Andreotti)”, perché nessuno può sapere qual è la vera potenza che c’è in chi viene deprivato di ciò che è per lui il respiro che lo tiene in vita.
Anche la musica “scalcia” e a mozzichi sottolinea il rimbombo dei sentimenti nelle brutali azioni. Ben interpretato dai due attori maschere immobili, ma dagli sguardi scrutatori che si prolungano inutilmente l’uno nell’altro, nella ineluttabilità della fredda determinazione del “new-cattivity”; è un film elementare nella sua linearità e precisione, come una lama.

In viaggio con Jacqueline

Un film di Mohamed Hamidi

Fatah, Jacqueline e Magritte

Se una delle modalità per guardare un film, escludesse il sonoro, dalle prime scene di questo film, dell’epoca in cui accade e di conseguenza del quando si svolge la vicenda, ci faremmo un’idea del tutto sbagliata: non succede in un lontano paese di montagna in Europa e alla fine degli anni ’50, bensì in Algeria e in quest’epoca attuale.

E’ l’abbigliamento che ben presto fa chiarezza sulla diversità della nazione e i sottotitoli che, in alcuni dialoghi, chiariscono a noi, di che cosa si sta parlando in quella scena.

Si tratta di un piccolo villaggio dell’Algeria, e la vita che si conduce, è una vita semplice, fatta di fatica, ma anche di capacità di contatti umani diretti e tutti sanno tutto, e se cattiveria c’è, è molto lasca, non bieca e nefasta. E’ una comunità che, com’era appunto negli anni ‘50/60 per gli europei, veniva vissuta in forma di condivisione  e le persone potevano coltivare dei sogni semplici e, con la comunità, tentare di realizzarli per una partecipazione di reciproco sostegno.

I due protagonisti, Fatah il contadino e Jacqueline la mucca, sono al limite del surreale: l’ ingenuità dell’uomo, che è al di sopra di ogni sospetto perchè figlio del proprio paese, con l’invisibilità di quella presenza ingombrante della mucca assolutamente dall’espressione impenetrabile, sono come il “CECI N'EST PAS UNE PIPE” di Magritte, in quanto i due, si identificano negandosi in quello che dichiarano perché essi vanno oltre: essi sono la forza, la validità, la consistenza, l’importanza nella vita dell’uomo, del perseguire un sogno.

La sceneggiatura è fluida e i personaggi sono ben delineati, non scadono nell’esagerazione descrittiva o interpretativa. I paesaggi sono cartoline che giungono da lontano e pian piano avvicinano alla più conosciuta Francia, come sono cartoline informative, i flash sulla diversità di usi e costumi e all’interno di tutto ciò, Fatah e Jacqueline si inseriscono con molta naturalezza, perfino nell’ ineluttabile acronicità di Facebook.

Questa commedia che la dice leggera su qualche cosa che sarebbe bene ricordare più spesso, che è il coltivare un sogno, in questa storia non manca nemmeno un pizzico di phatos e fino alla fine ci si chiede: Jacqueline vincerà o no il premio al Salone dell’Agricoltura di Parigi ?

Un tirchio quasi perfetto

Un film di Fred Cavayé

Anche i tirchi fanno figli

Ci sono film impegnativi e ci sono film che pur leggeri, hanno in seconda lettura, un impegno non da sottovalutare: "Un tirchio..." appartiene alla seconda categoria. Questa è una storia che pare ruotare attorno all'interprete principale, il tirchio per eccellenza, e tutto sembra incentrato su questa sua odiosa caratteristica: la tirchieria all'eccessso. Il protagonista ha e fa tutto ciò che rende odioso un tirchio e non cerca nemmeno di nasconderlo finchè, nel gioco dei malintesi, trova pure ragione alle sue tirchierie. Il ritmo incalza con il brio della commedia ed il personaggio è sempre più insopportabile, davvero un omuncolo che ha , inspiegabilmente vista la sua spilorceria che si vuole poi pensare legata alla personalità tutta, ha una grande sensibilità musicale, tanto da essere un ottimo concertista. Gli ambienti della storia, la scena intorno a lui è limitata, e il personaggio così, si delinea più strettamente in quelli che sono i rapporti umani con i vari gruppi con i quali divide la sua vita. Tutti sanno che lui è tirchio. La commedia però finisce e nelle sue trame si legge quello che così leggermente è trattato : il rapporto di un uomo che deve rendere conto di sè agli altri uomini e in primis a sua figlia. Questo è il nocciolo del racconto, interpretato mirabilmente dal cast di attori, ognuno nel proprio ruolo, perfetti: perfetti nell'interpretazione (w i doppiatori), perfetti nella mimica facciale, perfetti i dialoghi. Aggiungendoci la cura scenografica, dei costumi, e delle musiche ben calibrate che accompagnano le situazioni, si ha un film riuscito che merita essere valutato oltre la sua esteriorità di commedia, anzi, di favola. Sottolineo favola in quanto, personaggi così, tutti quanti messi assieme, che agiscono sia nei momenti di rabbia che in quelli di felicità senza mai eccedere, e con il finale dove tutto va in gloria, si trovano solo nei pur impegnativi Cenerentola o Biancaneve, ma ogni tanto la leggerezza che sa affrontare temi come l'importanza della figura paterna per i figli, l'importanza di essere capaci di affrontare se stessi, è molto più incisiva di discorsi che si fanno sentire sulle spalle dello spettatore con l'imprinting dell'ineluttabilità della vita.

Vi presento Toni Erdmann

Un film di Maren Ade

..non sarai certo tu o la tua grattugia..

Se l’irritazione è quello che si prova iniziando a vedere questo film, siamo sulla buona strada per apprezzarlo, per coglierne i molteplici aspetti che rifiutiamo perché è facile supporre che decidiamo che non ci appartengono.

Winfried, il protagonista, è il parente che non si vorrebbe avere, troppo fuori dagli schemi, troppo invadente, troppo candore in ogni suo intervento, per non essere giudicato uno stupido fastidioso ottuso ingombrante personaggio.

Tutto intorno a lui, corrisponde a una normalità accettata e stabilita per un benessere e una felicità che non corrispondono ai suoi canoni, e questo lo si intende dalle prime inquadrature dove si ha la netta percezione della sua umanità, dei suoi valori, della sua capacità di accettarsi e di proporsi agli altri senza nulla pretendere, nemmeno che apprezzino i suoi scherzi che lui stesso peraltro, minimizza nelle finalità.

La sua stessa fisicità è ingombrante e tanto più lui lo è, tanto più la figlia è esile, algida, rigida nella sua posizione sociale che faticosamente sta conquistandosi.

Appena inquadrati i due personaggi e la pragmatica delle situazioni dichiaratamente ottimali per la felicità degli individui, è necessario scegliere se identificarsi nel contesto e arrabbiarsi per quello che succede con quest’uomo ingombrante tra i piedi oppure giudicare il film per la destrezza con la quale il regista riesce a trattare il tema dell’alienazione personale che è il nocciolo del problema, in un modo così semplice perché è reale anche se indigesto nella sua realtà.

Si può puntualizzare che il senso del film sta nella scelta di come si può vivere la vita - soffrendola spersonalizzandosi adattarsi a situazioni o compiacendo le proprie necessità emotive con due destini completamente diversi; due paralleli, padre e figlia, che si confrontano – questo tema perno si comprende dalla mancanza iniziale delle motivazioni per cui tra padre e figlia c’è un rapporto staccato e contrastante, e nel finale che è aperto, e permette a ognuno di trarre le proprie conclusioni.

A mio avviso non è una commedia, anche se è presentato come tale e alcune scene del film sono esilaranti, ma non lo sono per comicità, ma perché si coglie l’imbarazzo nell’imprevisto, l’incapacità di affrontare ciò che non rientra nei canoni conosciuti pur innocui, mentre quelli conosciuti, pur scabrosi – scena di sesso tra i due amanti -  sono accettati e vissuti con nonchalance.

Questo film che travalica la difficoltà di essere genitori e di accettare le scelte dei figli, un film che nella scelta di non estremizzare le situazioni, dà uno spaccato di una società che non è capace o quantomeno è poco capace, di rinunciare a spazi sociali prestigiosi per raggiungere qualche cosa che pare felicità, anche se non convincente.

Una terribile frase per tutte lo definisce : “..se decido di uccidermi, non sarai certo tu o la tua grattugia a fermarmi..” pare un non senso, ma c’è tutta l’incapacità di dare ai valori più intimi il posto che a questi spetta. Bravissimi gli attori; buono il ritmo che permette di superare la lunghezza del film. Belli i personaggi di contorno che definiscono le situazioni con il realismo necessario. Se ci si chiede se tutto questo potrebbe succedere, la risposta è sì. Con un po’ di coraggio.

45 anni  

Un film di Andrew Haigh

Un castello su degli stecchini

Non è sufficiente il fatto che la produzione sia inglese, per giustificare le pecche strutturali di questo film. A riprova di ciò : ma davvero l’imperturbabilità inglese, potrebbe subire un trauma per un motivo così “leggero” ?
La morte in sé non è mai leggera, ma in questo caso si fa della morte un pretesto per arrogarsi il diritto di sentirsi traditi da un marito che in 45 anni non ha fatto trapelare l’importanza, non ha raccontato la storia, del suo precedente amore che è scomparso prima che lui la conoscesse ?.
E’ questo il pretesto, sul quale dovrebbe reggersi il film, ed è questo che fa mancare di forza questo film. Forse anche per i due attori la sceneggiatura non ha riservato quell’intensità che un dramma di 45 anni prima, improvvisamente emerso, potrebbe suscitare: è tutto oltre le righe della leggerezza.
L’unico accenno che poteva essere fulcro di una lacerazione interiore sia di Kate che di Geoff, poteva essere quella foto, mescolata alle altre vecchie fotografie della defunta compagna di lui, la foto dove la giovane donna, appariva incinta. Ma come, si butta sul piatto una possibile maternità per una donna che poi muore in un crepaccio..e questo “piccolo” particolare, non viene sviluppato perché non se ne fa il centro del dramma che dopo 45 anni, può nascere, questo sì, nella vecchia coppia ?. Con quella fotografia si aprono tante strade, tante possibilità, ma nessuna viene raccolta. Il regista resta lì, tra l’imperturbabile sconcerto di Kate e l’allocchimento di Geoff. Di queste due persone si sa molto poco, le loro relazioni sociali sono scarne, vengono dal nulla e vivono nel nulla perché non ci è dato alcun elemento per farci un quadro della loro situazione e che sia indicativo della loro personalità, tranne che si sono amati con una bella musica e che la riproporranno poi alla festa per i loro 45 anni.
E viene il giorno della festa e come dal cappello del mago, una marea di amici li aspettano per festeggiarli; loro gli amici avranno molti motivi per essere dove si trovano, ma che ci azzeccano con due tipi così solitari, che abitano in un paesaggio bellissimo e animato solo da Kate e il suo cane, due tipi così chiusi e in difficoltà per la loro vecchiezza come tanti altri esseri della terra, mentre gli altri..gli altri sembrano di un’altra storia.
Pure la scena d’amore che poteva essere struggente amore senile fatto di dolcezza e accettazione, è una scena scontata che ricorda più una donna compiacente abituata a compiacere all’occasione chi sta con lei, piuttosto che l’intima complicità tra due persone che dopo 45 anni insieme non sono certo estranei nemmeno nelle fattezze e nei gesti amorosi l'uno all'altra, ma ci sono arrivati fin lì, insieme.
Sono stati anni di tutto fumo ? Kate lo scopre ora ? E’ questo il senso del film ? Non regge. Ci voleva una motivazione più realisticamente accettabile.

Dheepan - Una nuova vita

Un film di Jacques Audiard

Il finale ? fuori dalle righe, peccato

Quello che conosciamo della vita degli emigrati, è sempre inferiore a quella che è la loro realtà. Questo potrebbe essere il messaggio, che pur per se stesso banale, è talmente ricco di impliciti sconosciuti, da riempirci sempre poi la mente degli orrori possibili quando come in questo caso, ci vengono presentati in una forma che rimane pur sempre distante dal nostro vissuto. Quest'opera inizialmente con maestria, riassume alcuni luoghi comuni, creando dei fluidi sottintesi per le situazioni già straraccontate : il viaggio sul barcone, la brutalità degli scafisti, l'impatto con la realtà del mondo "civilizzato". Per circa metà film, la cosa funziona e i passaggi, i collegamenti sono comprensibili, poi il regista tocca alcuni argomenti di grande spessore che però, vuoi per scelta tematica che si fissa su precisi argomenti, vuoi per non appesantire ed allungare troppo il film, abbrevia eccessivamente, facendo mancare degli elementi importanti di approfondimento, di drammatizzazione, dando una leggerezza al film mentre in realtà ciò non gli appartiene. La figura più completa intorno alla quale si svolge il film, è quella di Tamil, ma solo in quanto più completa all'interno del suo percorso, ma non fino alla fine. Le fragilità del film, sta nel toccare ed abbandonare troppo presto alcune problematiche: la figlia-non figlia che si trova nel mondo scolastico che non è di figure angeliche, ma di coetanei egoisti ed immaturi, ometti in formato ridotto, e poi le problematiche, sia di accadimenti che di contrasto con la propria civiltà, della moglie-non moglie alla quale si apre una visione sulla nuova vita,  la visione di un mondo violento e squallido nel quale non si sa come lei riesca a muoversi in quel modo eccessivamente sciolto soprattutto con i protagonisti dell'altro sesso. Nonostante ciò, questo resta un bel film, che non si perde in inquadrature superflue, ma alterna ambientazioni ad primi piani altamente drammatizzati. Peccato quel finale che non serviva all'economia del racconto e non trova giustificazioni perchè è totalmente fuori dalle righe, è proprio un altro film.

Black Mass - L'ultimo gangster

Un film di Scott Cooper.

Cavalcando sia il reale che il filmico

Cerco di immaginare se invece di Johnny Depp ci fosse come protagonista un altro attore o per lo meno a Jonny non avessero truccato gli occhi con quell'improbabile ombretto che mi richiama quel volto ben più pittato del pirata dei Caraibi...ma così non ci sarebbe stata l'interpretazione di Depp. Se è stato scelto quest'attore, è stata una scelta precisa della fisionomia del personaggio e di questi, il suo stare all'interno della storia. E' una storia di un gangster, ma imbastita senza nessun cliché delle storie di gangster se non la morte violenta degli uomini che contrastano la carriera del capobanda - e in questo il risvolto realista c'è -. I suoni, quelli che supportano le morti violente, anche quelli non sono amplificati come nei vecchi film in b/n o nei più recenti che scivolano nello splatter, ma sono più realisticamente contenuti, più secchi, più reali. Quindi, oltre ad essere tratta da una storia vera, la sceneggiatura ha delle scelte precise per cavalcare sia il reale, che il filmico. Così a fianco un Depp liscio come un palquet con l'ombretto, i volti degli altri malviventi, sono tipicizzati ed espressivi; a fianco della reale crudeltà c'è l'algida malvagità che si spacca solo per la morte di un figlio, figlio che è per James nient'altro che la sua stessa proiezione. Anche i movimenti di macchina vogliono fissare il tempo che è statico e ben lontano dalla frenesia delle corse in automobile di altri stili di linguaggio: ogni inquadratura e ogni delitto ha una cornice statica e non dinamica, come molte delle inquadrature che racchiudono i personaggi più che espanderli in un contesto ambiente, in bellissimi spazi costruiti con abili geometriche prospettive. Un film dove ci si sente coinvolti a metà perchè non si subisce l'orrore, ma lo si guarda senza inorridire anche grazie all'impostazione che parte immediatamente a "racconto" con il faccione del pentito che quasi ci viene addosso, quindi sappiamo subito che tutto è già risolto. Ottima fotografia dunque e ottima musica che non soverchia, ma accompagna le azioni e le emozioni conseguenti.

Ritorno alla vita

Un film di Wim Wenders

Una bolla di inespressività

Se non si conoscesse la firma della regia di questo film, difficilmente si troverebbero motivazioni per considerarlo più che "corretto tecnicamente". E' un film esasperante nella sua pesantezza che spinge in avanti con faticosa  leggerezza  una tematica molto impegnativa, e la risolve creando per i personaggi, un universo parallelo dentro al quale si muovono nell'inesorabile scorrere degli anni. Tutto è di una lentezza che forse vorrebbe andare controcorrente - visto il tema che potrebbe volere manifestazioni forti - ma non ottiene per nulla la gelida sensazione di una chiusura al mondo - per chi subisce un tale dolore è una scelta possibile come possibili sono altre che nello scorrere del tempo subiscono variazioni ed espressioni varie - un'esclusione dalla vita in un personale individualissimo ambito impenetrabile, no: l'accaduto porta i personaggi coinvolti, nel preciso medesimo universo parallelo, dove essi non si esprimono se non con la medesima precisa inespressività. Tutto questo avviene in "una bolla" dove i movimenti di macchina e la colonna sonora, sono di una lentezza ottocentesca. La figura del ragazzo che si sentiva colpevole della morte del fratello, poteva essere interessante, lo spunto del suo desiderio di diventare scrittore, pareva l'inizio di un intreccio forte, ricco di contraddittori con lo scrittore famoso..invece è rimasto sospeso in attesa di quella banale soluzione finale, che diventa stucchevole come la più più becera delle telenovelas: un sorrisetto che indica che la purificazione è avvenuta mentre il sole lo bacia e i capelli si scompongono mentre pedala e pedala e pedala.. E così dicasi dell'altro sorrisetto che vuole comunicare questo "ritorno ala vita" del grande scrittore che perdipiù, in un abbraccio molliccio nella scelta tecnica, viene incontro a noi spettatori sfocandosi e finalmente mettendo fine ad un racconto che non racconta nulla. E' un mondo parallelo, ma è un mondo senza poesia, ne struggente ne doloroso, è solo lì in attesa che si concluda, ma si conclude sprecando un'occasione ed anche un'attrice, brutta sì, ma molto interessante come la Gainsburg, della quale peraltro non sappiamo nulla per tutto il film, solo che è la più sfigata in questa storia.

Synecdoche, New York

Un film di Charlie Kaufman.

Dentro alle cose

Film molto difficile perchè non immediato. Capita sempre più di rado trovare film con contenuti così intimistici e complessi. Sono produzioni che rischiano di brutto perchè non fanno certo cassetta. Entrare nella piccola sala dov'era proiettato, se la scelta prima poteva far pensare ad una reclusione limitata per il solito numero di sfigati, vedere poi quanti e quale tipologia di persone era già pronta per godersi il film, è stato molto piacevole..come pensare : be' dai, ci siamo ancora e non siamo nè in pochi, nè i soliti e tantomeno gli sfigati. Pubblico vario e attento dunque, che si è lasciato trasportare per due ore all'interno di una storia che prima del plot, non si riusciva ad afferrare che cosa volesse da noi spettatori per tormentarci tanto trascinandoci nei meandri ripetitivi della vita. Hoffman sempre bravissimo nella sua mollezza che non dà tregua alla ricerca della logica, ha fatto molto rimpiangere la sua morte. Caspita, ma se questo era anche il suo tormentato percorso di vita, come non pensare che tale fatica di vivere, non poteva che essere sostenuta da qualche cosa fuori dalle regole ? Ma forse lui era solo un bravo attore, un eccellente interprete di una difficoltà di vivere dove la lentezza delle azioni è necessaria per poterci sprofondare dentro : perchè ogni cosa ha un perchè, ogni cosa ha il suo peso ed è questo peso che crea la ricerca della ragione di vivere. Se la trama del film può essere semplificata, non lo è con il racconto dello snodarsi degli avvenimenti che si accavallano gli uni sugli altri. Il primo salto temporale, fa pensare ad un'impostazione metafisica, ma non è così: il regista ha scelto di non scegliere gli schemi usabili per procedere per flashback tecnicamente invisibili. Così il tempo passa per "balzi" enormi, salta la normalità, per restare strenuamente avviluppato alla ricerca di sè attraverso la proiezione di sè sugli altri.E così passano gli anni.
Forse non era necessario prolungarlo ancora per molto, quando a 4/5 si chiarisce del tutto il senso dei personaggi e del loro percorso; forse aveva bisogno più di un'accellerazione che di dimostrazioni che spiegavano il loro precedente procedere. Era già stato svelato tutto ed era sufficiente. Un film importante che andrebbe rivisto..con una buona dose di coraggio se si pensa di poter affrontare allo stesso modo, una volta afferrate, con le medesime modalità, per capire cosa ci stiamo a fare nella vita.

Padre Vostro

Un film di Vinko Bresan

Minimalismo e complessità

Mentre sugli schermi italiani e non proseguono le proiezioni di film con titoli di coda chilometrici che raccontano quante energie (più o meno proficuamente) si sono sprecate per raggiungere qualche risultato (a volte pessimo), questo film croato, si presenta talmente tanto minimalista da sembrare, a confronto dei fratelli, un film tristemente povero. Sbagliato. Il surrealismo (che inizialmente potrebbe far pensare ad una scelta parallela e pur dissimile da quello che ci ha abituato Kusturiza) con ambientazioni scenografiche scabre ed ambientali di una semplicità lontana dall'opulenza patinata dell'ovest, si va a sposare con delle tematiche estremamente impegnative che altrove avrebbero trovato soluzioni meno geniali di questa. La narrazione è pulita e si srotola in un crescendo di complicazioni che persegue una logica nella sua imprevedibilità. Il giovane  prete, autore della trovata per aumentare le nascite, non trascende mai oltre un equilibrio difficile da raggiungere, che sta tra la realtà possibile e l'ammissibile surrealità del fatto. Il testo, la sua espressività, le situazioni, restano per tutta la durata del racconto, all'interno di questo equilibrio. Gli attori minori, seguono questo filone dando allo spettacolo la possibilità di essere non solo godibilissimo, ma di prendere contatto con delle scabrose tematiche, già altrove trattate, ma con tale pomposità da creare la solita esecrazione che subito fa dimenticare le cose (tanto noi non possiamo farci niente). Qui invece, nel prosieguo del film, la drammaticità impalpabilmente aumenta per scoppiare tutto in pochi momenti finali calando come una mannaia che lascia rabbia addosso. Di diverso, nella complessità numerica e sostanziale dei problemi che vengono a galla, c'è quel grido d'allarme che toglie ogni patina dalla cronaca : guardiamoci dalle situazioni più banali perchè sono quelle che sembrano ormai luoghi comuni - e non ci crediamo più abbassando la guardia - sono quelle le situazioni che continuano a creare l'humus per ciò che poi diventa dannoso. Sono quelle situazioni che non sono mai state risolte alla radice, e il regista lo spiega con estrema semplicità e chiarezza, con l'ingenuità e la sprovvedutezza del prete giovane. Unica perplessità : lo stile. Lo stile nell'ultima parte del racconto, non cedendo ne alla realtà, ne al surrealismo, ottiene sì la consistenza della drammaticità, ma perde in parte la coerenza con il taglio col quale inizialmente si era stati introdotti nel film per altro molto godibile ed interessante.

Philomena

Un film di Stephen Frears

Un po' di vendetta punitiva mai ?

Poteva cadere nel patetico drammatico, poteva cadere nel buonismo, oppure nel “riscatto meritato che giustifica la vendetta”, ma Stephen Frears ha costruito il film ed i personaggi, cercando un equilibrio possibile che andasse in coppia senza eccessi con la storia vera.
Molto, se non tutto, è sulle spalle di Judi Dench, Philomena, che raggiunge una capacità espressiva notevole e sempre con molto equilibrio. Difficile ruolo il suo, ma nella ragnatela di rughe del suo volto, i suoi occhi sanno dare corpo a quei sentimenti impossibili da tradurre a parole per un dramma così profondo come quello accaduto alla reale Philomena.
Molto gradevole l’impatto iniziale che mette al corrente dell’origine del dramma, con un’immagine riflessa che quasi quasi da spettatore vi si scivola dentro, dentro a quel lontano passato, raccogliendo poi il dolore di Philomena nel viso rugoso dell’oggi, senza bruschi passaggi. Una Philomena che ha celato per anni la sua verità, invecchiando silenziosamente, ma non può più farlo da quando sente una forte necessità di un contatto, di una notizia, di ritrovare quell’esistenza che le è stata strappata. L’impatto con questa sua necessità è immediato anche se non se ne percepisce il motivo certo.
Inizialmente c’è solo un desiderio di figlio, ma pian piano, mentre s’incontrano i personaggi coinvolti e si va a sbattere sugli avvenimenti, di delinea meglio cosa cerca la donna, la madre da quel figlio, cosa vuole sapere. La donna è ritratta in tutte le sue sfumature di persona semplice, culturalmente limitata, prigioniera di dogmi vili e superati dal tempo stesso in cui adesso vive, eppure lei a quei principi è legata quel tanto che basta per non avere desideri di vendetta.
La sceneggiatura tiene e il ritmo, tranne qualche piccolo cedimento, ed è sufficientemente sostenuto da trattenere l’attenzione. La fotografia è molto buona nella ricerca di luci che spesso delineino i personaggi mentre per le location, i paesaggi sono splendidi quadri autunnali, e gl’interni perlopiù meno saturi di atmosfera, incidono meno dei personaggi o dell’evento che vi si consuma: ottime scelte.
Steven, il giornalista scrittore, è leggermente sopra le righe, molto meno “duro” di come potrebbe essere stato il vero giornalista e il suo sfogo finale risulta un po’ scontato e leggero nonostante il volume alto della voce, gli manca il tono, la solenne pesantezza delle parole scagliate anziché pronunciate.
Il finale non è scontato, anche se ci si arriva per gradi, anzi, proprio per questo si comprende meglio il percorso interiore di Philomena, incomprensibile per il giornalista - che mantiene come tale il suo scopo di “usare” il dramma – ma che alla fine capirà e sarà disposto a capitolare. E’ un continuo ribaltamento di dichiarazioni d’intenti, un palleggio che si snoda fluido senza eccedere nello svolgersi delle situazioni anche se a chi guarda dalla poltrona, vorrebbe alla fine un po’ più di soddisfazione, una piccola piccola vendetta..

Lunchbox
Un film di Ritesh Batra


Orientale non usuale

I film di produzione indiana che fino ad ora ho potuto vedere, sono molto lontani dalla mia capacità di apprezzarne i valori sostanziali di quella cinematografia, ma così non è stato per questa produzione – che non è però totalmente indiana.
La delicata possibile storia d’amore tra i due personaggi, finisce per escludere tutto il resto del mondo e si focalizza su elementi a coppia: Ila e la zia, peraltro fisicamente invisibile; Ila e il marito, peraltro come se fosse invisibile tanto non comunica con la moglie; Ila e Irrfan, che se era invisibile prima in quanto uomo solitario, vedovo scorbutico, diventa visibile attraverso il casuale rapporto cibo/confidenza.
La storia è ben modulata nel crescendo rispettoso di canoni di rapporti uomo donna dall’impronta orientale, è molto equilibrata senza sbordare in eccessi macchiettistici.
Originale il rapporto profondo che esiste tra Ila e la zia, si può quasi attribuirlo ad una napoletaneità eduardiana, di rapporto da balcone e balcone; qui è molto saggio, molto profondo e molto complice.
Tra i due sposi invece non c’è nessuna complicità e nessun affetto nonostante i tentativi della donna. Da questa volontà, parte il legame con lo sconosciuto, legame trattato in modo possibilista nella sua linearità.
Coronamento ricco econ spunti interessanti e non usuali, invece sono le ambientazioni, interne ed esterne, che  isolano ancora di più i personaggi all’interno dei personali sentimenti che rimangono come protetti dal caos della vita quotidiana in un mondo eccessivo per noi occidentali, anche..in un vagone di prima classe. Colpiscono molto le inquadrature dei cibi, inquadrature che trasmettono quasi i sapori e i profumi che da quei cibi devono probabilmente espandersi.
Film delicato e coinvolgente che apre uno squarcio su una filmografia che pare qui avvicinarsi molto di più al nostro gusto/conoscenza e che ci penalizza nelle altre occasioni eccessive.
Vale quindi però, come il detto comune vuole, che l’uomo, si prende per la gola..

Il Passato
Un film di Asghar Farhadi.

Cofuso

Mentre in “una separazione” la struttura del film era più complessa di quel che ad una prima lettura poteva apparire, ma dove tutto era calibrato e fluido nella successione, in questo film Farhadi, inserisce troppe figure se non improbabili, molto fragili nell’economia del discorso. La tematica di base – quella dell’inutilità di fuggire davanti alle problematiche anzichè affrontarle in una consapevole risoluzione – è certamente interessante, ma è come ogni singolo personaggio sia costruito con contorsioni che sembra vogliano solamente rendere più lungo il film piuttosto che dargli uno svolgimento plausibile.
Troppo “carta velina” il marito di Marie, Ahmad, che appare un fantoccio più che un uomo saggio; troppo “passivo” con momenti bruschi da isteria interiorizzata, il nuovo compagno di Marie. Troppo immatura Marie stessa che non solo non sa quello che vuole e come lo vuole, ma ha reazioni infantili racchiuse in fattezze fisiche che non giustificano – se così a volte è – tali atteggiamenti capricciosi che non sono poi altro che una richiesta d’aiuto. Troppo contorta con la perversione della contorsione della costanza, la figlia Lucie che a volte fa pensare d’essere giustificato da una morbosità di rapporti tra lei ed il nuovo compagno della madre, cosa che poi non c’è. Certo, il passato ha stratificato e non dipanato le problematiche, ma il tutto ci viene presentato in eccesso tranne il piccolo miracolo di verità splendidamente interpretato dal piccolo Fouad, splendido interprete con una grande espressività fisica (dato che è doppiato non si può certo valutarne le capacità della recitazione).
Tanto era commovente Una Separazione”, tanto fastidio lascia questo film che sfiora verso la fine, il noir in quello svelamento della colpevole del dramma consumatosi nei confronti della moglie del compagno di Marie.., senza però averne il senso. Tutto troppo, eccessivo ed alla fine confuso quel tanto per sentirsi poco partecipi ed infastiditi da questa famiglia allargata che vive di sé in un coacervo di situazioni non dipanate che fanno pensare che certe persone le sfighe se le vanno a procurare..

Sacro Gra
documentario dessé

Un film di Gianfranco Rosi.

Il premio a questo documentario a Venezia, ha suscitato meraviglia in quanto “documentario”. C’è però da dire molto di più. In questo momento il documentario va molto di moda e tutti hanno un loro linguaggio ben definito. Perlopiù, chi conosce argomento o luoghi, si accorge quanto superficiali o didattici siano questi lavori. Le caratteristiche principali di quelli che non sono didattici e quindi classicamente intesi come precisa e spesso noiosa descrizione del soggetto, sono due: i conduttori che diventano in realtà protagonisti e la tecnica attuale che rende meravigliosamente visibili cose che altrimenti non si potrebbero gustare.
Per i primi, il conduttore ha un tale carisma che spesso ci si identifica col suo divertimento, per i secondi, macro e rallenty, portano alla conoscenza affascinanti mondi che nemmeno ci sfiorerebbe l’idea di andare a cercare.

Sacro Gra, non è niente di tutto questo, anzi: è estremamente “povero”. Riprese statiche e spezzettamento di “storie dei protagonisti” alternate al paesaggio, sono l’impostazione  strutturale del lavoro.

Il serpentone di macchine, il Sacro Gra, è un protagonista incombente, ma lontano, anonimo, carico dei suoi supposti – automobili=mondo benestante – ma non è indagato, è semplicemente un mondo a parte. Intorno gravita un’umanità borgatara che ricorda l’umanità pasoliniana, nel suo terrificante spessore di misera umanità che non può uscire dalla “miserabilità” nella quale è nata. Non ha possibilità. Questo è il pregio del documentario: non presentare niente di quello che non c’è. Non suscita nemmeno emozioni. Le storie non sono storie, sono pagine di un giornale aperto e consumato per/dalla strada sotto ogni intemperia, dimenticato, non importante: di ogni storia ne compare un po’, ma resta lì immutabile senza un prima che ne giustifichi l’esistenza, e un dopo che faccia pensare ad un futuro inteso come speranza. La regia non entra nel merito di ciò che mostra, se non in due situazioni con un intervento tecnico coloristico e uno sonoro, azioni queste che non sono riuscita a collocare come necessità filmico narrativa, se non quella di interrompere una continuità di scelte che poteva diventare monotona. Eppure in tutto questo piatto magma, c’è il pizzico della follia umana, quella che fa sorridere in quanto follia degli altri: alcuni personaggi sono davvero particolari in quanto inusuali nel comune dei nostri incontri, ma sono presenti in modo contenuto tanto da non concedersi  come spettacolo per emozionare. Non è un documentario per ogni palato, è reso in modo troppo semplice e leggerne i contenuti, resi in modo così controllato, non è da chi si aspetta le cose abituali, cioè gratificanti almeno per l’occhio o per lo spirito d’avventura da poltrona. Un lavoro da valutare con la mente sgombra dagli orpelli fittizzi anche se qualche cosa di costruito anche in questo c’è: tutti quanti i personaggi hanno dovuto recitare se stessi, ma ci sono riusciti con una compostezza che certo non passa per spontaneità, ma che se non ci fosse – se le riprese fossero state “rubate” – questo sarebbe andato a discapito di quel distacco della regia dal contenuto, che invece crea del lavoro uniformità.

Una fragile armonia

un film di Yaron Zilberman

Non è un concerto

Brutto segno quando durante la visione del film, si comincia a capire cosa accadrà nella scena successiva. Così è accaduto per questo film che poi ha confermato essere decisamente deludente per la sua prevedibilità e non solo. Peccato che attori di ottimo livello, abbiano dovuto impegnarsi in una sceneggiatura che non ha certo affondato la sua ricerca nello spessore delle problematiche individuali che sono state presentate già inizialmente. Dell'alzheimer - di Christopher Walken -,resta l'immagine delle medicine ingurgitate; del rapporto madre e figlia - di Catherine Keener e Imogen Poots -, niente di meglio delle solite incomprensioni anche se si è tentato di cercare nel prurigginoso, evocando un vecchio legame tra la madre e il - violinista - seduttore della figlia - con una prevedibilissima entrata materna in scena, entrata che (non)sorprende i due (grotteschi) amanti; della dedizione che richiede la musica - di Mark Ivanir - rimane l'opinione che è un incoreggibile e sfigato in campo amoroso; dell'umanità ricca di ogni aspetto umano - del grande Philip Seymour Hoffman - resta la goffaggine dei suoi istinti. Lavoro privo di stile e di classe, nonostante una splendida musica, ma non è un concerto, è un film e come tale è da giudicare.

Lincoln
un film di Steven Spielberg
Grande Janusz Kaminski

Difficile esprimere un parere motivato che non sia almeno in parte in linea con una delle 9 nomination per l’Oscar. Interessandomi di struttura tecnica che crea i film, ero incuriosita “professionalmente” per capire come una struttura che si avvale di tanto “parlato”, può non essere tanto teatrale da far scappare gli spettatori senza aspettare la fine delle 2 ore e mezza di proiezione. Il ritmo per tutto il lavoro è stato costante, anche il movimento macchina, per altro lentissimo e spesso non direzionota simmetricamente al centro (risultato : esclusione di alcuni elementi che avrebbero disturbato l’attenzione dal soggetto dell’inquadratura finale) non ha avuto bruschi passaggi che potessero sottolineare la drammaticità o la tensione o l’intimo travaglio del presidente. Anche la colonna sonora, quasi sottesa al racconto, non si è mai lasciata prendere dagli eccessi, mantenendosi su di una costante narrativa che emergeva nei momenti giusti per essere notata senza sommergere gli eventi o portarli con la sua forza in un patos che altresì si raggiungeva attraverso la percezione perfetta del momento. Nemmeno la tonalità color poteva risolvere il problema, visto che si è mantenuta sui toni del marrone e del grigio. Eppure, il tempo se ne è andato senza noia. Il ritmo è stato creato dalla fotografia.
Già inizialmente le figure si stagliano decise su di uno sfondo grigio luminoso e sfocato come ombre cinesi nel loro nitore e si continua così per altre scene ancora con qualche variante, ma creando due netti stati di profondità, rinunciando cioè ad una successione graduale, cosa questa che dà maggiore drammaticità togliendo in parte la lentezza. Per quello che riguarda gl’interni, molte sono le inquadrature B/A, molto potenti sugli uomini politici e i loro inghippi, tranne i primi piani che spesso sono disegnati con un sapientissimo controluce o una luce più accentuata che poi cambiando inquadratura, non è del tutto giustificata dalle visibili fonti luminose (evidente ricorso ad elementi riflettenti ad hoc). La composizione è molto equilibrata nella distribuzione dei campi luce-ombra e del loro peso cromatico e per questo scopo vengono anche “usate” le persone, intere o parziali, partecipi o comparse, e non solamente le fonti luminose come le grandi finestre che paiono essere le protagoniste dalle quali deve entrare la luce di un possibile futuro. Grande Janusz Kaminski, direttore della fotografia.
Unico neo : la recitazione eccessivamente teatrale della moglie di Lincoln, mentre stupenda la scena lanciata come conclusione, che ha per protagonista quell’eccellente attore che è Tommy Lee Jones.

Qualcosa nell'aria
Un film di Olivier Assayas
Perché ora ?

Se dovessi usare un'unica frase : quanto fumavamo ! Ma il film è un lavoro molto più complesso di quel che si può capire dalla definizione e la frase non direbbe nulla soprattutto a chi quel periodo non l'ha vissuto. Così era, ed è da quelle storie con quella difficoltà di scelte, che siamo arrivati alle situazioni dei giorni nostri. Tecnicamente valido, solo con qualche rara incertezza di montaggio e della sovraesposizione delle immagini, forse eccessiva se non indicativa di un scelta concettualmente significativa, deve aver richiesto un certo lavoro per la ricostruzione storica di cose, ambienti e costumi..già perchè quel periodo è già storia anche se non mi pare di ricordare i tutti quei caschi in testa dei manifestanti, ma molto di più le randellate della polizia e il lancio furioso lancio dei sanpietrini.
Il cinquantino, il ciclostile tutte case scomparse come pare scomparso l'impegno giovanile, la protesta e soprattutto il credere. La storia è molto ben costruita attraverso un unicum che è il giovane Gilles, un po' troppo inespressivo rispetto agli altri interpreti, che molto più intensamente, con gli sguardi e gli attegiamenti, danno forza alle loro azioni, ai loro movimenti.Gilles passa con la sua camminata goffa, da un'azione terroristaca ad un rapporto amoroso, con quella che appare indifferenza, ma che corrisponde ad un "qui e ora" che stava oltre le proizioni politiche ed era fondante non solo del senso della libertà delle scelte e della gestione di sè, per tutti quelli che ancora non erano stati ingurgitati dalle regole del perbenismo che li spingeva come carriera verso le orme paterne o verso il matrimonio. C'è tutto: l'attivismo e la droga, il benessere e la difficoltà economica, la religione orientale e l'aborto occidentale. Tutto molto asciutto con poche concessioni a personali prese di posizione, fa sì che ognuno possa trovare in Gilles, un modo per identificarsi nel suo vivere attraversando situazioni. I dialoghi (grazie alla traduzione ?) sono molto realistici e privi di invenzioni sul tema per cui la sceneggiatura aderisce perfettamente all'epoca come un fedele documento storico. Buon film, ma lascia una tristezza profonda perchè si percepisce proprio dalla tristezza dei personaggi, che è intenzionale di un "documento postumo" e lo si deduce dalla totale mancanza di sorrisi come copione : non c'è nessuna gioia in nessun momento, progetto, azione e intenzione, in nessuno dei personaggi. Io questo non lo riconosco perchè in noi c'era anche la gioia di vivere insieme alla consapevolezza dell'esperienza, della lotta, dell'età e dell'inevitabile incoscienza per il futuro e allora mi chiedo: perchè ora questo film ?

A Royal Weekend
un film di Roger Michell
Disgustoso

Tanto era elegante "il discorso del re" e tanto è rozzo "a royal weekend". Presentato con un ottimo ed accativante trailer, lascia un sapore di concessa pruderiè per il buon nome dell'attore principale, interprete della figura di Roosvelt, che dovrebbe innalzarne l'intrinseco valore, ma nessuno si può aspettare allusioni sessuali così becere che non hanno possibilità di qualsisi apprezzamento motivato. Non è ben chiara dall'inizio quale dovrebbe essere la finalità del film : documentare un documento ritrovato rivelatore di una verità sconosciuta ? Raccontare gli aspetti più umani di un mito ? Portare in evidenza il lato romantico di un uomo impegnato politicamente ? La sceneggiatura è molto confusa e non riesce ad andare più in là dello squallore che ogni singola figura rappresenta di sè. Tutto è ambiguo come nella peggiore delle favole dove sono stati mal usati dei buoni ingredienti ; la moglie di Roosvelt : lesbicona nel peggiore dei significati della parola, che ha tanta furbizia da essere diplomatica; un re tre volte stupido accompagnato da una regina che nella sua intimità è mediocre e vuota più di ogni donna "normale" ; la cugina di Roosvelt, che grazie alla collezione di francobolli ha modo d'innamorarsi profondamente di un grande-piccolo uomo. Non c'è niente che funzioni in quanto niente ha una dimensione precisa nella realtà filmica perchè niente si identifica con una realtà possibile. Fastidiosissima la mancanza plateale di un'etichetta, mancanza che forse avrebbe dato quel po' di ironia necessaria a dare forma al film. Molto bella la fotografia in panorami solari e in interni eleganti, ma non basta questo per salvare un film.

La migliore offerta
un film di Giuseppe Tornatore
difficile centrare totalmente il senso

Grande struttura compositiva per un film che ha avuto senza dubbio dei costi ragguardevoli (14 milioni di €), che è stato realizzato inoltre con i contributi di tre Film Commission nelle cui regioni sono state girate delle precise scene in location individuabili tra le quali la splendida villa Colloredo-Mels a Gorizzo di Camino al Tagliamento in Friuli (solo esterni: internamente è vuota).
L'ottimo Geoffrey Rush interpreta egregiamente il personaggio principale, Virgil Oldman , sia con l'espressività che con i movimenti misurati e perfetti (splendida la scena della torta di compleanno), se non fosse per i dialoghi che sono stati costruiti gli hanno costruito nel senso del procedere del film per la sua figura di uomo amante del bello.
I dialoghi, i suoi approcci con le persone che con lui hanno rapporto, mal si identificano con quel personaggio schivo, sicuro di sè, profondo conoscitore senza scrupoli di persone e cose che non cerca ne amici ne compagni di viaggio perchè l'unico suo fine è avere per sè solo e unicamente la bellezza. Con la bellezza e, in senso più preciso, Virgil ha un problema ed è l'esistenza dell'universo femminile e questo problema lo tiene a distanza e da distanza lo vuole ammirare e adorare. In una sua reale ideale situazione. Quest'uomo, con questa complessività non può avvicinare e farsi tanto facilmente "abbindolare", da un giovane ragazzotto esperto di meccanismi meccanici e di donne. Non può esserci nei confronti di questo giovanotto, un approccio tanto goffo e soprattutto ingenuo da parte di VIrgil (questione questa di sceneggiatura intesa come dialoghista)
Qui stà la debolezza del film che si struttura esattamente su questo rapporto, sulla sua amissibilità. Con questo iniziale contatto, così improbabile, è difficile accettare che tutto quel che ne consegue, non abbia questa ingenuità, al suo servizio. Da qui viene meno il fattore amissibilità della sorpresa, il gioco filmico. Peccato: un piccolo errore che inficia le aspettative, creando una serie di possibilità, alcune delle quali portano esattamente al centro della storia. E' un fastidio che accompagna tutto il film senza però nulla togliere alla piacevolezza del montaggio gratificato dalle ambientazioni sia di situazioni (sala delle aste) che degli ambienti, soprattutto per gli interni perchè nella splendida villa, la ieratica scenografia della facciata, è stata rovinata da un inesistente muro che ha permesso d'inserirla in un ambiente urbano che in realtà non esiste, togliendole la magia di un suo effettivo isolamento che però forse al regista non interessava, ma che era più reale e inquietante di un reale ricostruito e inammissibile.

DI NUOVO IN GIOCO – Un film di Robert Lorenz
 

La semplicità può avere valore non banale


Inutile risottolineare quanto sia grande anche come attore Clint Eastwood che qui interpreta la difficile parte di un ipotetico se stesso, con una cosa certa in comune: la vecchiaia. I malanni son sempre difficili da accettare nonostante si cerchi di affrontarli con la forza di un caratteraccio che non si piega a nulla e un fisico e un morale che incassano ogni sorta di dolori che la vita dispensa gratuitamente a tutti. A confrontarsi in questo momento della vita, Gus/Clint, si trova esposto su due aspetti basilari : il rapporto lavorativo, il rapporto familiare. Qui sta la forza costruttiva del film anche se ad una prima lettura può sembrare si tratti della solita storia di un vecchio talent scout che non vuole cedere il passo al mondo che cambia. La superficie che è semplice e banale confrontata con altre tematiche esistenziali, è questa, ma quel che sottende è molto di più. Non è solo questione di vecchio e  nuovo
Il vecchio e il nuovo. L’esperienza umana che non viene superata dalla migliore delle tecnologia : l’esperienza, la capacità di ragionare con quel tanto del niente che è la sensibilità assolutamente personale e che fa un uomo diverso – migliore o peggiore - dall’altro, la capacità di pensare valutando con quel metro che non ha numeri e non fa statistiche che è la testa pensante, questo, nel racconto, fa parte del “vecchio”. Così pare, ma questo patrimonio, il vecchio Gus/Clint, lo ha trasmesso anche alla figlia.
Ai “nuovi”, ai giovani sostenitori tecnologici, non appartiene nemmeno un briciolo di capacità d’ascolto, sono senza l’intelligenza dell’umiltà della mancanza di presunzione. Così è il giocatore promessa del baseball, così il rampante collega di Gus, così altre figure arcinote che qui si dichiarano subito nelle loro caratteristiche, per una scelta molto oculata e precisa del casting che già nei tratti fisici, è come se si dichiarassero per quello che sono. Ottima quindi la scelta degli attori “secondari” che poi ben sanno interpretare il loro ruolo.
Questa è la struttura principale. Sotteso è il rapporto tra padre e figlia. In modo molto leggero ed accettabile perché non esasperato, ma impostato in situazioni che possono aver riscontro nella realtà oggettiva. Così si snoda la storia di un legame irrisolto come possono essercene tanti tra genitori e figli in quei moti d’incomprensione che s’ingigantiscono il più delle volte, per l’impossibilità di comunicare in modo adeguato. Le problematiche, comprensive di eventi negativi, del vecchio Gus, quando verranno chiarite, spiegheranno anche il suo carattere, i suoi scatti, la sua ira, sostenuti da un grandissimo orgoglio di uomo.
Non manca nulla, nemmeno la figura dell’amico fedele, nemmeno la soddisfazione finale sul “cattivo”, ma ci stanno le figure retoriche gestite con tanta misura.
Neo : il giovane ex giocatore di baseball, figura improbabile, ma forse necessaria per dare una scappatoia a certe risoluzioni di scelte della figlia Mickey
Buone le transizioni tra alcuni cambi temporali o di luogo di scena.

IL SOSPETTO - di Thomas Vinterberg

Anche gli adulti mentono

Ci sono alcuni film che anche senza saperne la produzione, non si fa difficoltà a collocarli geograficamente, tanto è forte la loro caratterizzazione ad iniziare da quella cosa invisibile e presentissima che è l’atmosfera resa con immagini, colori e personaggi dalla fisionomia pregnante. Il cinema danese come l’inglese e quello francese, fortunatamente continuano a presentarsi con questa forte decisa personale caratterizzazione e per lo più sono supportati da soggetti impegnativi. “Il sospetto” nella sua drammaticità è un ritratto della socialità in uno dei suoi più biechi e bui aspetti, che mai riuscirà ad essere corretto, nonostante il progresso tecnologico che dà la possibilità a tutti di confrontarsi con tutti. Magistralmente e in un moto esponenziale, il racconto procede partendo da una piccolissima cosa, un piccolissimo elemento che via via porta tutti nel tunnel del sospetto, della distruzione di un simbolo.
Questo processo è costruito in modo preciso e avvalendosi come punto di partenza, di un piccolo episodio reale, che non racconta un episodio, ma così viene inteso. Nel sommarsi di definizioni che accrescono l’inesistente, la sceneggiatura non eccede ne sull’isterismo, ne sulla macchietta dei personaggi coinvolti nella vicenda, e questo crea l’angoscia da identificazione perché, un fatto del genere, potrebbe accadere a chiunque. Il volto solido come un muro di pietra di Mads Mikkelsen, dà la consistenza dell’impossibilità di uscire dalla situazione di sospetto, qualsiasi cosa si possa fare, anche la più semplice come quella di mettersi a disposizione affinchè le cose si chiariscono. Ma chi le può chiarire, sarà altrettanto fiducioso ? Sarà capace di neutralità  ?
I colori di una fotografia splendida e realmente tonale per i paesaggi del nord, mette ancor di più nella condizione di trovarsi nella realtà di una brutta favola che riflette una realtà che nulla concede alla soluzione fantastica. Tutto il racconto si snoda nel costante procedere di una storia scritta, anche la violenza fisica o i momenti di smoderatezza amicale, tutto inesorabile : ci si sente soffocare proprio per la mancanza di eccessi che ci salvino facendoci credere, usciti dal cinema, che la vita possa essere un’altra storia.
Eccellenti interpretazioni, nessuno escluso. Elemento che poteva essere evitato perché troppo prevedibile emotivamente è la fine dell’animale amato: è un eccesso che, scontato, distrae proprio perché dell’animale presente dall’inizio con insistenza, già s’intuisce che avrà quel ruolo preciso, mentre per le persone si può pensare che abbiano un guizzo, un ripensamento, una possibilità in più. Anche se si sa che non è così.
Emblematico inizialmente il finale: se poteva sembrare eccessivamente didattico nella scena del regalo iniziazione, è proprio quel primo non-finale che dice che “anche gli adulti mentono”. Solo così, con quel momento pacificatore reso con un’elissi temporale, perde significanza quello che poteva essere inteso il finale per eccellenza : l’entrata nel mondo degli adulti, del figlio di Lucas. Il regalo ad un ragazzo dall’aspetto ancora delicato e non incombentemente maschile come gli adulti uomini del nord, poteva essere inteso come l’esaltazione dell’inevitabile soccombere alla legge di terre inospitali dove gli uomini devono essere più feroci della natura. Ma non è così : il finale vero è quello con l’apoteosi inattesa del sospetto - e non il sospetto che qui si maschera per convenzionalismo da rinnovata amicizia - dove colui che continua a sospettare, a colpevolizzare e giudicare, con il sospetto mantiene la determinazione della vendetta, egli è colui che non compare, ma agisce e come il sospetto è inafferrabile. E così che si scopre che gli adulti mentono, e non solo i bambini.Testo

LA SPOSA PROMESSA - di Rama Burshtein
Non facile da apprezzare e tecnicamente eccentrico


Il mio gusto personale, non corrisponde a questo film, ma ciò non toglie che ne abbia potuto valutare gl’indubbi pregi peculiari ed apprezzarli.
E’ un film che persegue quasi fino alla fine, un ritmo notevolmente lento ottenuto non solo con una lunga permanenza sulla scena, ma anche con silenzi o dialoghi lenti e con una dialettica rallentata.
La fotografia si avvale di molti primi piani che pur non riempiendo lo schermo,  anzi, proprio perché posizionati ad una delle estremità e a volte parzialmente eccedendo oltre il campo, creano un senso d’incombenza pesante.
Alcune inquadrature sono eccessivamente ricercate senza avere una logica o un effetto che corrisponde all’economia del racconto, delle emozioni che si vogliono suscitare e che i fatti del racconto perseguono egregiamente, ma molto valide le luci che disegnano i profili o gli scorgi tra i corpi dei personaggi coinvolti nella scena.
La terza cosa - che invece è funzionale al racconto - è la grande apertura del diaframma, in modo tale da ottenere uno sfocamento graduale, ma totale in modo rapido nel passaggio ai piani secondari, tranne che nel punto esatto scelto dalla regia per il fuoco.
Così, l’attenzione va alla ricerca del dove il tratto dell’immagine nella scena è più nitido – e questo può essere in un personaggio anche molto decentrato – ma quando la scena è comprensiva di più di un personaggio, si perdono parti del racconto che rimane in zona molto ma molto dissolta. Questo dunque pilota l'attenzione e corrisponde a ciò che accade all'interno della griglia filmica voluta.
Queste caratteristiche tecniche indubbiamente ricercate, posso piacere o meno, certo è che sono molto estremizzate e non facilitano la fluidità del film, anzi, lo rallentano maggiormente.
Per quel che riguarda l’intreccio del racconto, la resa di quel particolare strato sociale israeliano, implica grande competenza ricreando il senso d’impotenza accettato ed esempio dalle donne, ma anche dagli uomini che pur apparendo coloro che hanno in mano la gestione degli affari anche privati, devono sottostare alle leggi “interpretate” e confermate dal Rabbino di turno.
Anche la colonna sonora contribuisce notevolmente a immergersi in quel clima che, cercando, potrebbe essere trovato anche nella vita di alcuni professanti estremisti sia cattolici che di altre religioni in qualsiasi parte del mondo.
Splendidamente confezionati i costumi e ottima la scelta del casting, il film presenta un’ultima sorpresa tecnica – che è annunciata con l’abbagliante immersione nel morbido, candido e fluente tulle che pare uscire dallo schermo -  quando alla fine, viene totalmente mutata la tipologia della ripresa, che passa ad essere “a spalla” esattamente al un plot della storia che poi non potremo seguire.

Argo - Un film di Ben Affleck.
Brutto film per una bella storia

Il cinema ha, o dovrebbe avere, delle precise classificazioni per i suoi prodotti – documentario, fiction, triller.. - , ma ora più che mai ci sono delle “mezze vie”, che più che essere contaminazioni, sono dei pasticci piatti e alla fine non hanno ne stile ne carattere e non si capisce a chi sono diretti a quale fruitore.
La storia narrata  in “Argo” è tratta da una storia vera, ma di vero – o per lo meno quanto il cinema ci consegna come racconto del vero - oltre al fatto di esserne a conoscenza, per il pubblico qui non c’è nulla.
La suspance che il film vorrebbe riproporre, è modestamente ottenuta con delle tecniche di montaggio oltretutto trite e ritrite e perciò del tutto prevedibili.
I sentimenti, le emozioni che scuoterebbero qualsiasi  persona che si viene a trovare in situazioni così drammatiche, sono solo costruite con frasi anonime e pronunciate senza interpretazioni emotive.
Il regista e attore protagonista Ben Affeck/Tony Mendez, è un campione di inespressività sia degli occhi che del resto del volto. Così è o poco di meglio, per gli altri attori che sono legati in una imbalsamazione perfino quando scappano dall’ambasciata  e, per così dire “corrono” verso una probabile salvezza. Unici interpreti che escono da questa immobilità espressiva sono i diplomatici canadesi, la coppia che poi deve scappare per non subire le conseguenze della loro generosità. Altri buoni attori sono i “vecchi” attori, quelli già altrove supercollaudati, gli unici che facciano apprezzare la loro interpretazione : John Goodman, Lester Siegel, Jack O’Donnell, Ken Taylor portandoci all’interno di quello che vuol dire un film.
Anche la sceneggiatura zoppica parecchio e appare addirittura improponibile quando impone i personaggi “ricercati”, tanto spavaldi, sicuri di sé oppure semplicemente sempliciotti incoscienti, quando per interpretare i personaggi del fantomatico film, se ne escono dal rifugio perfettamente riconoscibili, in mezzo alla gente nei vicoli del mercato dove poi logicamente verranno riconosciuti.
Infine il regista che poteva risparmiare quest’ingenuità agli americani, per par condicio poteva risparmiare l’altra ingenuità agli iraniani, ingenuità che li paragona agli indiani d'america che si perdevano dietro agli specchietti che i primi colonizzatori davano loro in cambio di oro e pietre e altre cose preziose, quando vengono regalati loro i disegni dello story-board del fantomatico film.
Ultima chicca, purtroppo in negativo, è il montaggio alternato che avrebbe dovuto create patos alla fine, momento clou in un film del quale si conosce già la soluzione felice. Montaggio che accelera il ritmo, ma oltre a questo non va perché è solo questione di forbici e per giunta male usate.
Brutto film per una bella storia a lieto fine, perché se si fossero solo presi in considerazione gli stati d’animo dei protagonisti, si poteva evitare situazioni violente nel senso fisico dell’immagine e dare una lettura molto reale e drammatica di un fatto di conflitto umano

 Oltre le colline – un film di Cristian Mungiu

Ghiaccio torbido

I 155 minuti del film, trascorrono in un’atmosfera glaciale e come ambiente e come stato d’animo. Sacro e profano si fondano in un torbido che si annuncia già all’inizio, ma che rimane  secondario e lieve rispetto alla più profonda tematica sulla quale si regge il film.
La fede come alternativa possibile ad una vita senza calore umano, è sottoposto qui a tutte le pieghe amare delle bassezze umane di chi frustrato, deluso, abbandonato dalla civiltà contemporanea come modalità di confronti autocritici, crede nella sofferenza come resurrezione e credito per il futuro nel bene. Non c’è nulla nella scenografia che dia un barlume di speranza, in un cambiamento dell’esistenza del momento: non un colore vivace, ne un’espressione sorridente nei volti, ne una frase allegra nel copione, o un gesto o un avvenimento. L’ottusità caparbia di salvare l’unica cosa bella della vita, è affidata ad una ragazza dai lineamenti smussati, smorti, ma forse proprio questa sua ottusità di lineamenti e di comportamenti, è la forza che non le fa mai desistere dal cercare di ottenere la ricostruzione di un rapporto che dia il senso alla vita.
Se Voichita è ottusamente persistente e pronta a qualsiasi compromesso per ottenere quanto ricerca, così Alina, ormai già inserita nel contesto del monastero, persegue ottusamente il suo percorso altalenante tra dovere monasteriale e il non agire deciso in modo da spingere al suo destino allontanando l’amica Voichita. Anche Alina è ottusa e per questo ha scelto il rifugio del monastero, non ha coraggio, si nasconde dietro ad una scelta pur intuendo che non può abbracciarla totalmente. E’ questo il torbido ghiaccio che regge il film: l’ineluttabilità del suo procedere nonostante li dubbi che tutte le adepte hanno. Solo il “padre”, l’unico uomo alla guida del monastero, alla fine rivelerà più che cattiveria o maniacale ideologia religiosa, rivelerà ingenuità, vera o fasulla per l’occasione, non è dato da sapere anche se il guizzo della scena finale – dopo un tempo di attesa che mal coincide con i  precedenti ritmi - è molto indicativo per la sua secca repentinità concettualità. Film intenso e non facile e magistrali interpreti le due ragazze. Le scenografie mantenute sui toni del nero e bianco, richiamano a volte la pittura naif per la composizione immersa sia nel paesaggio che negli interni; molto studiata la fotografia che spesso si distingue in due ordini le scene: in alcune contrappone ad uno sfondo sovraesposto - che annulla i particolari, lo sguardo che vada oltre - le figure già nere con i soggetti che appaiono ancor di più macchie nere senza forma mentre il viso che ne emerge è galleggiante su di un mare cupo, in altre accade viceversa: lo sfondo è predominate e viene cancellata la figura principale che rimane sì una macchia nera piatta e informe ma spesso perchè ripresa di schiena. Molto innovativo l'immettere l'affetto lesbico come imput, pretesto per la vera tematica che è poi quella di una fede, del suo essere motivo di pace o di drammi ancora esistenti in luoghi poco distanti dagli avvenimenti contemporanei in luoghi del mondo non del tutto isolati.

Tutti i santi giorni - un film di Paolo Virzì

Film irriverente ed inutile
Il film ha avuto il contributo dal Ministero per i beni e le Attività Culturali, nonostante ciò lo giudico irriverente per come propone il tema:
irriverente è la mancanza di ironia o di qualsiasi altro imprinting che non sia la superficialità, con la quale mette al centro di tutto il movimento centripeto del film, il desiderio di maternità di una donna. Tema molto serio questo, ma che potrebbe essere anche presentato con leggerezza, con capace leggerezza, con capace sottile ironia, con capace profondità e mille altri modi, ma che qui viene presentato come sfizio di una donna che non dimostra - se non nell'incosciente momento che decide di passare con una bimba non sua creando angoscia nella madre vera - che non dimostra forte desiderio di maternità, ma nulla altro che la voglia di qualche cosa che non conosce, che non sembra voler conoscere e per nessun sentimento condiviso con il partner se non di quello del "fare un figlio insieme". La gioiosità e la maturità, della coppia finisce lì, la stessa sessualità è tutta proiettatta nel volere questo figlio che non arriva. Il partner, sta all'opposto di Antonia, Guido è un uomo di cultura - cioè, legge tanto, conosce tanto da permettersi di fare citazioni letterarie sulla scia lanciata da e con un luminare - questa sua è l'immagine della "cultura" che ci viene presentata, ma di contro Guido non ha la capacità ne di capire la sua adorata compagna - così ignorante, così leggera, così vivace, così sbandata, così..scazzata -, ne di proporsi in modo da poterla aiutare, ne sa aiutare se stesso nelle varie occasioni che gli capitano, sia al lavoro, sia con i vicini, sia..ovunque. Insomma: è un dotto che oltre al collegamento tra se stesso e le cose che gli piacciono - gli studi di lingue antiche etc etc - è negato per ogni altra cosa. Figura nobilissima dunque, se è questo l'aspetto della cultura più esclusivista e sublime, ma anche qui il sentimento di paternità, scivola via senza lasciare null'altro che il tentativo di accontentare questa libellula che è Antonia. Viene da chiedersi come può una coppia così mal assortita, restare assieme, però il desiderio di un figlio evidentemente deve essere sembrato un collante possibile per la struttura del film. E tutto diventa noioso e prevedibile e trascinato per le lunghe. Anche l'incontro/scontro con i genitori di Antonia - sorpresa sorpresona di Guido che dimostra che con Antonia non ci azzecca proprio in niente - appare buttato lì per aggiungere differenza tra i due - in contrappunto difatti molto più positiva appare la famiglia di Guido, ovviamente -, ma non è costruito in modo sufficiente, hanno vissuto tanti anni assieme i due ragazzi e Guido..cade dal pero quando i due genitori di lei gli si presentano davanti alla receptionist dell'albergo dove lui lavora; l'inserto appare come un qualche cosa di colore - e anche qui scontato - inserito tanto per riempire uno spazio vuoto. Infine è scontata anche la rincorsa del bel cane nero per raggiungere la padrona, gioiosa scelta questa perchè ci mancava tra tanta concettualità o tra tanta pirotecnica fantasia..
E' un film inutile perchè se vuole presentare un contemporaneo modo di essere dei giovani tra i trenta e i quaranta, be' insomma, l'immagine dei giovani superficiali, negativi, fuori dal mondo..la continuano a ripetere tutti e forse è del tutto inutile inventarse una nuova e patinata e così fuori sia dalla realtà che dalla fiaba. Di certo non aiuta dato che esisto giovani del tutto, o mediamente, o almeno un po' più positivi di queste due figurette sostanzialmente insulse per il ruolo che dovrebbero avere in un film, appiccicate assieme per farne un film.
Buoni i panorami, quasi grafici, ben equilibrati nell'inquadratura e carichi di atmosfera e buona anche l'impaginazione dei coatti - vicini e frequentatori dei vari locali dove c'è musica dal vivo e urla e personaggi coloriti.. Personaggi ben disegnati anche se "beceri" oltre misura, e quindi fuori livello per tutto il resto del contesto di registro molto, molto più piatto.

COGAN - KILLING THEM SOFTLY - di Andrew Dominik
Peccato : noioso


Non si può non pensare già dalle prime immagini, che questo sia un film d’azione “atipico”, in quanto pare di capire che noi stiamo, anzi “siano” l’animo sensibile dei killer, dei malvagi insomma, ai quali il film è dedicato. Potrebbe essere un punto di vista interessante per scoprire quella parte dell’animo umano che potrebbe farceli scoprire identici a noi attraverso debolezze e sensibilità che condividiamo, ma alla fine, di questa opinione rimane solo una sottile sensazione di presa in giro, non abbastanza ironicamente trattata per rappresentare il carattere del film, ma abbastanza fastidiosa da capire che è uno di quei film che alla fine ti spiega la morale scettica del più cattivo che c’è, che poi è la morale del grande “tutto” del sistema.
Poco coerentemente trattato nella scelta degli effetti nel creare l’atmosfera che potrebbe allontanare dalla violenza reale dei pestaggi e delle intenzioni – entrando magicamente nel soft più soft dell’anima -, ha il suo momento topico nella scena con ripetizioni multiple ad hoc, resa con un rallenty tra il magico e lo spot, che però affascina per la possibilità di godere di quei particolari che la velocità dell’azione il cinema ci nega inevitabilmente.
Purtroppo la cosa non ha grande seguito se non in una similripetizione sostanzialmente diversa, ma sempre in soft-soft-soft, nella partecipazione allo sballo di Russel, partecipazione nella quale ci si trova letteralmente a sguazzare nella lattiginosità delle scene tra il nebuloso e il grafismo sperimentale.
Oltre questo, nulla di originale per inquadrare i personaggi, ne come linguaggio parlato, ne scenico, ne ritmico.
Un film stranamente anonimo che non lascia alcun segno.

ON THE ROAD -un film di Walter Salles

Il '68 ? Roba da educandato

Non avendo letto o non ricordando minimamente quel che è stato il libro di Kerouac che ha suscitato scalpore, si potrebbe pensare che il ’68, sia stato il periodo dei più recenti sconvolgimenti giovanili e di idee, ma si va incontro ad un forte shock quando ci si rende conto di cos’erano gli anni ’40, vedendo On the road: è come aver pensato per una vita, che un compleanno in un educandato possa essere il massimo dell’anticonformismo.
On the road, non ha una storia – le storie classicamente intese che s’intrecciano tra i personaggi -, racconta delle storie che hanno il senso compiuto ogni qualvolta questo è la traccia del percorso di una persona; concludere, non è questo il senso estetico, letterale o morale del film, nel film ogni stralcio che lo compone porta lontano dal punto di partenza, in un continuo srotolarsi di eventi, come poi è ogni vita normale, anche se sullo schermo generalmente il regista ad un certo punto, ci mette una fine.
Molto intenso e travolgente, il film ci porta all’interno dei personaggi, lontani mille miglia dalla nostra contemporaneità piatta, mediocre, senza idee ed iniziative se non quelle indicate dalla non-cultura corrente, eppure ci si immedesima nella follia giovanile ricca di sogni e convinzioni.
“Schizzati” sarebbe il termine più consono a definire i personaggi, ma sono attori e come attori a loro va anche il merito della riuscita di questo film.
Il ritmo è alterno come la musica: incalzante quando è necessario sottolineare il momento, ma  molto ben calibrato agli altri momenti, quelli del confronto e del dialogo.
Molto bella la fotografia che propone è vero i soliti paesaggi di ampio respiro, ma dosati senza compiacimenti; molto belle la scelte dei primi piani quasi mai troppo spinti pur essendo di quelli che ragionano per “esclusione” e quindi dando il peso necessario a ciò che stà intorno, alla composizione, alla ripresa di quinta, alla luce che crea chiaroscuri, per accentrare l’attenzione sul soggetto. Un film che lascia soddisfatti per la completezza anche se l’abitudine a ricercare in una storia un inizio ed una fine, qui, non trova soddisfazione, ma insegna ad accettare di essere anche osservatori passivi e ad uscirne senza una morale a tutti i costi. E così si fa, lasciando che lo sguardo di Dean, sguardo mai indossato fino a quel momento, uno sguardo finalmente doloroso, si allontani inghiottito dalla città su di una strada dove per l’ultima volta – forse – i destini suo e di Sal si sono incrociati: e non ci chiediamo che fine farà.

 

Un sapore di ruggine e ossa - un film di Jacques Audiard

Peccato una “sinossi” non adeguata

Decisamente molto più sostanzioso di come venga presentato sulle locandine, il film racconta di quei luoghi e di quella vita, di chi nasce: ne ricco, ne fortunato, ne con prospettive ottimistiche realizzabili per crearsi uno status-quo. Non si può parlare di miseria del tipo bassifondi dipinti poeticamente di toni di grigio, ma di strati sociali con un destino difficile sì. Costruito con una buona fotografia con pennellate di luce e scorci che senza essere estremi, introducono nell'animo e nell'attimo dell'accadente, ed un buon montaggio che accusa solo qualche attimo di incompletezza in alcuni primi piani eccessivamente stretti da diventare non sufficienti, il film si snoda con chiarezza approfondendo sui personaggi, tutt'altro che irreali. Alain è di una razionalità e una "semplicità" mentale che rasenta la grettezza, la stupidità, ma il suo è un mondo senza alternative dove si prende quel che si prende perchè in quel momento c'è. E basta. Senza farsi domande, senza pensare ad alcun poi. La limitatezza affettiva che ha nel rapportarsi con il figlio, piccolissimo e solo davanti al mondo, è giustificata da quanto viene raccontato di lui, poco ma quanto basta per capire che il suo non è stato un desiderio di peternità. Poche fantasie sull'amore paterno, sull'istinto genitoriale innato, e deve essere proprio così almeno finchè non ci si trova davanti alla possibilità di perdere quella piccola "cosa" così pesante da gestire e da proteggere. Dura è la vita e il mondo di Sam, ma se meno difficile appare il mondo di Stephanie, quel che le accade riporta immediatamente alla realtà che è molto più imprevedibile di quanto si possa pensare. Molto valida l'elissi parallela tra ciò che accade a Stephanie e quel che sta facendo Sam : perdita ed uso del medesimo mezzo che ne determinerà poi lo scorrere dei futuri giorni. Film molto ben costruito nel succedersi delle situazioni con un dialogo estremamente realistico. Unica piccola pecca nel finale : appena prevedibile l'evento catartico e un po' tirato per i capelli - come lunghezza della scena -  probabilmente nel senso dell'alzare il pathos per la risoluzione della scena stessa.Decisamente prolungati i tempi in eccesso perchè sia così realmente possibile il lieto fine. Molto buona la colonna sonora.

 

ELLES - Un film di Malgoska Szumowska

- film senza boccate d'aria fresca

Difficile apprezzare i film che seguono la caratteristica del momento, di riprendere a spalla gran parte delle scene. Il modo, sconvolgente per alcuni stomaci compreso quello della sottoscritta, riesce a dare in questo caso, una lettura modificata del ritmo del film. Molte scene sono particolarmente lunghe e sarebbero decisamente lente se non ci fosse il dondolio della macchina da ripresa a distogliere l'immobilità reale. Il senso nevrotico invece, è ampiamente realizzato dai gesti, gli atteggiamenti di Ann, giornalista stranamente incapace di affrontare un argomento difficile anche se la cosa dovrebbe rientrare non solo nelle sue esperienze - non è giovanissima - ma anche nelle sue capacità di controllo emotivo necessario per la professione giornalistica. Strutturato con intrecci temporali, il film è faticoso, pesante, ma non perchè ci si faccia carico delle problematiche delle ragazze prostitute o della morbosità della giornalista o delle difficoltà sessuali maschili risolte con perversioni più o meno conosciute, ma c'è la pesantezza torbida di un non risolto per alcuno dei personaggi. Non è sufficiente la scena finale che conclude con un ipocrita e banale colazione comune di tutta la famigliola i tormenti protrattisi per tutto il fil : troppo scontata, perde ogni forza, è piatta senza qualità che la contraddistinguano dopo tanto sapore di carne.
Bravissime le interpreti femminili, quelle maschili, sebbene siano protagonisti indiscutibili nella loro nascosta realtà - della quale alcuni danno anche giutificazione - sono interpretate come figure marginali e perdono forza in un ieratico ripetersi del loro rituale sessuale, ma oltre il quale non compare null'altro della loro vita.
Film più "contro" i maschi che contro lo sfruttamento, ma in una lettura più approfondita emerge come la morbosità della giornalista è solo un pretesto per presentarla allo stesso livello delle "perversioni" maschili con l'opportunità di un mestiere - il giornalismo - che come tale non regge.
La stragrande magggioranza delle scene hard nel corso del film, tolgono equilibrio al senso del racconto. Particolare che aumenta il senso clautrofobico di discorso intimistico : si contano sulle dita le location in esterno.
 

MAGIC MIKE  - Un film di Steven Soderbergh
- il problema qual' è ?

Un film impostato prevalentemente su scene di strip maschile per tre quarti delle riprese, non ha la pretesa di far pensare alla problematica di un giovanotto che per riuscire ad avere i soldi sufficienti per una sua attività, si adatta a fare lo stripper.
Al di là dei bei corpi, al di là degli accattivanti balletti maschili, al di là delle scene di allegra isteria femminile, c'è troppo poco spazio per le introspezioni di The Kid.
Una problematica che può essere reale, viene presentata in modo troppo fragile sia nella scelta del plot  - del tutto prevedibile - che dovrebbe determinare la presa di coscienza di The Kid, sia nell'espressività dello stesso attore, sia nella sceneggiatura che gli viene cucita addosso.
C'è uno scadimento compiacente della bella ripresa su dei bei corpi, un fatto epidermico che allontana dal contenuto che poteva essere interessante se trattato decisamente da "dietro le quinte".
 

È stato il figlio - Un film di Daniele Ciprì
Ineluttabile claustrofobia familiare

In un periodo relativamente breve, sono passati sugli schermi alcuni film dalla tematica molto impegnativa tantopiù che riguarda ciò che per eccellenza è il futuro: i figli.  Pietà, La faida e questo film.
E’ stato il figlio, soggetto che poggia su di un substrato terribilmente radicato in Italia, la mafia e i suoi sacrificati, è un film che usufruisce della grande forza interpretativa di un eclettico Toni Servillo e dell’imprevedibile capacità fantastica di Daniele Ciprì.
I continui mutamenti di atmosfera – si passa dalla cruda realtà alle scenografie più fantasiose da fantasiland – in modo fluido e tanto gradevole da non notarne quasi mai la svolta se non quando poi si ritorna alle scenografie reali.
Gli ambienti sono splendidamente descritti nel loro squallore povero, dai giochi dei bimbi tra immondezza agli interni di una casa dove tutto è squinternatamente misero, agli esterni statici e magari ieratici al di là di un ponte inquadrato dal basso, che permette d’intravvedere solo ciò che svetta verso l’alto, non permette di capire dove tutto ciò nasce. 
Nonostante ciò, nonostante la miseria che ovunque toglie speranza, il sogno di una vita migliore si focalizza su di un’inutile auto di grossa cilindrata.
Tutto il ritmo del film procede ineluttabilmente uguale verso un qualche cosa che sembra prevedibile, ma Ciprì sorprende con un ultimo colpo di scena investendo del ruolo da protagonista la nonna che fino ad allora non era stata particolarmente presente ai momenti dell’azione o delle scelte.
Difficile riconoscersi in uno o l’altro dei protagonisti perché di volta in volta, ognuno presenta realisticamente un aspetto plausibile del nostro carattere: chi è debole, chi è vile, chi ha paura, chi ha coraggio e ancora altri aspetti tutti terribilmente umani, impastati però con una povertà pericolosamente deviante.
Fotografia curatissima, si avvale di punti di vista decisamente legati/motivati dal contenuto della scena e ne sottolinea così, ora la staticità, ora il movimento delle persone e  delle loro menti, ora l’essenza del personaggio stesso magari parcheggiato nell’ufficio postale.
Il tono coloristico della pellicola, è molto spento, tranne che nel sogno, quasi in contrasto con la forte espressività gergale ed irruente del grande Servillo.
Splendido il drammatico finale che letteralmente trasmette un senso di claustrofobia, comunicandoci l’ineluttabilità del futuro del figlio che pur innocente, pagherà per le piccole povere ambizioni di gente miserabile e il cerchio del sogno svanisce su di lui. Un'altra realtà del futuro dei figli se le cose resteranno in luoghi dove la mafia ancora impera.

PIETA’ - Un film di Kim Ki-Duk 
- un altro mondo
Per apprezzare il senso di un film realizzato da un regista orientale, si dovrebbe poter conoscere profondamente quella cultura : troppo distanti da noi, ne raccogliamo solo aspetti marginali senza saper ricreare le connessioni.
Il mio parere da occidentale non può non prescindere da questa consapevolezza.
Tutto il film è saturo di un grigio che fa miseria, ma la miseria orientale, rassegnata e consapevole, è disposta ad accettare la violenza che inesorabilmente accompagna le vite dei miserabili. Pare che i guizzi di colore rosso inseriti come lame, siano annuncio della violenza dirompente che in un modo o nell'altro avverrà.
Il racconto si svolge in spazi angusti - spazi di lavoro e spazi di vita - oppure in spazi ampi, all'aperto, ma è in quei luoghi dove il rapporto uomo spazio si fa inversamente proporzionale, che si consumano i drammi più violenti e la scena finale, troppo forte per noi per essere accettata.
Non si può non essere sommersi da tanta violenza, è necessario che si sedimenti perchè si possa raccogliere il significato del dolore come punizione-riscatto. Una doppia lama che per raggiungere lo scopo è tagliente da ambo i lati e non si può ferire senza restare a feriti.  Grandi attori, grande fotografia per un film difficilmente godibile.

Monsieur Lazhar  -  Un film di Philippe Falardeau
- Troppa carne al fuoco

Grande interpretazione di ragazzini neppure adolescenti. Troppi argomenti delicati ed importanti da trattare in poco spazio. Questa sintesi del film lo mette tra i lavori da considerare incompiuti perchè non danno sufficienti risposte ne alle tematiche emergenti, ne a quelle sempiapparenti, ne alla struttura del racconto che manca di risposte elementari.
Troppa leggerezza e troppo peso sembra contraddistinguano questo film che sfiora appena tematiche come il rapporto tra genitori e insegnanti, come il rapporto affettivo corretto e non tra insegnanti e allievi, come il rapporto di competizione e sostegno tra compagni di classe, come il rapporto tra maschi e femmine nell'età in cui sono ancora nell'amicizia senza malizie. In tutto questo, viene catapultato un professore che professore non è. Troppo in quanto poi la regia non riesce a fare pulizia con un minimo ordine di priorità. Peccato perchè la tematica scottante della morta che pare sia la prima affrontata, poi scompare nei meandri senza avere una risoluzione interpretativa o in fatti o in eventi.
Molto ben tracciate le figure dei ragazzini nelle loro qualità e  difetti. Fotografia parca che non eccede in compiacenze, ambientazioni grigie che creano una sorta di tristezza perenne al di là dei fatti drammatici che avvolgono ogni realtà.
Davanti al dramma che devono affrontare i ragazzini, il dramma personale del professore rimane in disparte, quasi inascoltato e questo pesa ancora di più sull'atmosfera malinconica del film.

LA FAIDA – Un film di Joshua Marston
- film importante

Con pochissimi effetti, mezzi e particolari attrezzature, questo è un film realizzato con quel raro equilibrio che pone una realtà nella sfera filmica. Portando in evidenza una problematica poco conosciuta come tutt'ora praticata, La faida è un film importante che meriterebbe un'attenzione adeguata. Al di là dell'evidente trattazione di quelle che sono le problematiche dell'esistenza di tradizioni antichissime, pone in evidenza il problema del rapporto tra padri e figli, cosa che avviene in contemporanea in altri due film : Pietà ed E' stato il figlio.
La storia riportandosi ad una tradizione albanese, ci distrae da quello che è la labilità della nostra memoria : medesimi principi d'onore condannano il clan opposto in caso di regolamento di conti anche in Italia, ed è una realtà che ha un nome : mafia.
Nik, il ragazzo condannato ad essere il capro espiatorio per il delitto perpetuato dal padre, sta in un mondo senza le tecnologie accecanti del nostro quotidiano, ma sia lui che i due fratelli, sono ragazzi che vivono felicemente come tutti gli altri della loro età, concentrati sugli approcci amicali e non sulle necessità drammatiche delle faide scatenate dagli adulti. Viene il giorno in cui la loro vita è stravolta e davanti a loro inesorabile è la prospettiva per i due maschi, di restare rinchiusi tra le mura di casa se non vogliono essere uccisi. Mentre da un lato il film si blocca sulla staticità di una vita tra quattro mura, dall'altra parte, si assiste all'evoluzione della figlia femmina che messa davanti alla necessità, è lei che provvederà a guadagnare il po' necessario e intuendo presto la necessità di maturare ed evolversi, si trasforma in una donna accorta anzitempo. E' un crescere di presa di coscienza dei due fratelli, uno costretto a rinunciare a tutto un mondo che gli appartiene senza alternativa alcuna, l'altra costretta alla stessa rinuncia, ma facendosi carico di tutto un mondo adulto che ancora non le apparteneva.
Notevole la capacità filmica della regia che spiega ampiamente il procedere delle tradizioni, con un sapiente racconto filmico carico di apprensione tanto sono percepibili i diversi sentimenti dei ragazzi in primis e degli adulti che qui hanno un ruolo se pur determinante, secondario nell'economia della cronaca. Ritratti psicologici dei personaggi abilmente tracciati con la profondità e la necessità differenziata dal sesso e dalle individuali identità. Molto pregnante lo scontro finale tra padre e figlio che ci e si pone davanti ad un enigma che non può essere risolto se non nella finzione filmica. Ottima l'ambientazione che senza eccessi interpretativi, rende perfettamente lo spazio della crudezza del dramma. Notevoli i giovani attori.

Marilyn - di Simon Curtis
Il mondo intorno a lei
La curiosità di verificare come una figura così carismatica, qual è stata e continua ad essere Marilyn Monroe, possa essere ricreata all’interno di una ricostruzione filmica, è uno delle motivazioni più che valide per vedere questo film. In realtà non è la riproposizione della vicenda esaltante e drammatica della diva, non si tratta di un racconto biografico sull’attrice, ma in modo inaspettato, perché il titolo non lo lascia minimamente supporre, la vicenda ricostruisce prevalentemente tutto ciò che le ruota attorno in un determinato periodo della sua vita e cioè durante la lavorazione del film “Principe e la ballerina”. La figura della donna Marilyn, è stata così accentratrice che i personaggi che le hanno vissuto accanto, hanno finito per essere in un certo modo figure subordinate, quanto meno “destinate da un destino” che non poteva prescindere dal legame più o meno stretto con la diva. E’ di queste figure che ne viene tracciato un ritratto molto articolato.
Inizialmente il film segue un ritmo frenetico che propone con un succedersi ritmato di scene scandite in modo rapido con pari accompagnamento sonoro, quello che è la vita, nelle sue fasi preparatorie, del realizzarsi di un film sul set e tra i lavoratori primari che vi ruotano attorno.
Poi il ritmo si dilata e se la prima parte è un’analisi corale dei diversi protagonisti, nella seconda parte l’attenzione si focalizza su Colin Clark che lentamente si fa assorbire ed avviluppare dal fascino e dalla fragilità seducente dell’attrice fino ad innamorarsene. E’ un pezzo di grande equilibrio senza sbavature interpretative che mantiene il dovuto distacco dalle problematiche interiori di Marilyn, pur lasciando che sia la loro esternazione a coinvolgere il giovane Colin.
Un’ottima fotografia con inquadrature dal taglio preciso senza rigidità geometriche, trova soluzioni affascinanti per la delicatezza soprattutto nei primi piani. Molto curate e suggestive le luci anche nelle scene totali e molteplici dei set più o meno in azione.
I personaggi hanno una fisicità molto definita, come da esigenza di copione, ugualmente per le gestualità e i dialoghi: tutto è molto controllato e non diventa mai eccessivo.
Nella terza parte si procede con qualche piccola sorpresa non scontata nel succedersi degli eventi, piccole cose che appartengono più alla favola, o al mito, che ad una realtà scontata, piccoli passaggi che vanno a concludere un film che non ha necessità di scoop finali.
Infine la figura dell’attrice Marilyn, Michelle Williams. Nel difficile ruolo la si può analizzare da ogni punto di vista e non si potrà ritrovare la morbidezza, la flessuosità, la grazia maliziosa della vera Marilyn, ma in tutto questo non c’è nulla in questa sua interpretazione - gestuale, di atteggiamenti, di rotondità fisiche vere o false -  che infastidisca perché è..anzi “non è” uguale all’originale. Nessuno sarà mai Marilyn, ma questo, all’interno del film, non diventa motivo di confronto, di necessità di identificazione assoluta, di ricerca di “difetti e differenze”, sia perché la Williams non va mai oltre i limiti di una controllata naturalezza, sia perchè la focalizzazione è sapientemente portata sugli altri soggetti per i quali Marilyn, una volta tanto, ricopre il ruolo secondario necessario ad un racconto su come hanno vissuto coloro che le sono stati accanto; una volta tanto non si va a sviscerare la sua tormentata esistenza e il suo dramma personale è solo scenografia.


La guerra è dichiarata - di Valérie Donzelli
Perchè scomodare Giulietta e Romeo ?

La pellicola appartiene a quella serie di lavori che trattano una tematica umana tra le più sconvolgenti e dolorose che andrebbero trattate con molto equilibrio e creatività professionali per ottenere un prodotto che non abbia solo il pregio di essere “strappalacrime”. La filmografia spesso “ragiona” per filoni e spesso ancora questi filoni sono modaioli, di annata, ma quello del dolore per lutto è una tematica senza tempo come lo è quella del problemi legati agli ospedali psichiatrici per citarne solamente uno. Pochissimi però sono i prodotti di alta qualità.
E’ difficile dire quanto di esibizionismo e quanto di esorcizzazione del dolore ci sia nell’offrire la propria storia dolorosa, in pasto al pubblico, di certo, questo film è talmente privo di quelle caratteristiche costruttive di un film, che viene da pensare se non alle due sopraddette motivazioni, ad una notevole autostima della regista, ma non è sufficiente soffrire per essere poetici.
Nel film non si apprezza nessuna costruzione psicologica dei personaggi che vivono la vicenda sostenuti inizialmente da un ritmo frenetico che brucia i tempi dall’incontro dei due protagonisti e alla nascita del figlio, mentre nella seconda parte, il ritmo dilatato che dovrebbe supportare i sentimenti più laceranti, accompagna una sceneggiatura piatta  che non approfondisce nessuna delle numerose e pressanti tematiche possibili.
La scelta di vivere il periodo della malattia del bambino, in stretta coppia, poteva essere un'altro degli argomenti portanti, rimane invece nella scala d’importanza, al medesimo livello degli altri; le formazioni di coppie affettive, diverse tra i parenti che circondano amorevolmente la coppia e il bimbo, era un altro ancora anche se marginale; il vivere senza lavoro per stare vicino al bimbo, ma nessuno di questi è argomento presentato in modo esaustivo cosa che poteva arricchire comunque il contesto sociale dell'ambientazione.
La scelta di scene con immagini graficamente significative, dovrebbe evidentemente acuire la drammaticità, altresì contribuiscono alla confusione di scelte di stile mescolandosi nel calderone con quel paio di scene trattate alla stregua del recital canoro.
Tra le cose che emergono negativamente: la musica. Strabordante, melliflua eccessiva non accompagna, non racconta, non suscita, ma inneggia con una forza autoreferenziale.
Ultimo, ma non ultimo : la voce over. Assolutamente inopportuna oltre che inadatta crea un’atmosfera da ricostruzione di un serial-killer in un qualche cosa che invece vorrebbe essere una fiction tratta da una storia purtroppo vera.

Cosmopolis - di David Cronenberg
Prostata asimmetrica

I primi dieci minuti del film danno un senso di scollamento tale da desiderare di essere altrove : quello che dicono i due personaggi dentro la limousine, è assolutamente incomprensibile. L'atmosfera ovattata del lussuoso interno location clautrofobica, l'assenza di rumori - la musica non inizia subito e si nota molto quando questo accade -, la lentezza e la monotonia del ripetersi del clichè rapporto uomo/donna, fanno sprofondare in un annullamento della reattività che si riesce ad accettare solo quando si può mettere a fuoco di che cosa si sta trattanto. Indubbiamente un film di alto livello, non facilmente assimilabile e non per tutti, anche se la terza parte fotograficamente è più attraente e precisa nei ritagli degli spazi, nelle inquadrature dei personaggi, nei cromatismi piuttosto densi e dai toni caldi, e per il ritmo che leggermente si anima.
Le figure femminili sono donne di/per fare sesso, il tono della conversazione tra loro ed Erick, è decisamente variato se è in fase attiva ssessuale o se conversano di affari.
Le figure maschili vivono all'interno di un'apatia esistenziale, animata al massimo da una minaccia o da un mito defunto, e sono tutte conseguenti ad un non senso, ad un tedio esistenziale nel quale sono immersi saturi, senza mezze misure, di benessere o di malstare.
L'unico personaggio che si salva da tutta questa devastante "depravazione futurista",è il barbiere che ancora conserva in sè, e la poltroncina ad automobilina per bambini ne è il testimone, i ricordi di un'altra vita con un rapporto sociale più consolidato e fertile.
Il film si regge su di un forte simbolismo non immediato e i lunghi dialoghi non aiutano ad entrare nel contesto : troppo intelettualizzati, Antonioni docet, anche se proiettati in un ben smunto futuro molto umanamente desolante.
L'assimetria in un mondo privato delle spinte di affettività, di motivazioni, è un pregio in quanto rarità non omologata, ma il ricco Erick è troppo giovane per saperne non solo il significato letterale, ma pure il senso più profondo.
Lo troverà attraverso la morte ? il finale è ambiguo, ma troncato di netto come la chiusura di un libro più che un punto di domanda, ma lascia aperta la domanda a chi vivrà domani se effettivamente si stia andando verso quella qualità della vita.
 

Sister - di Ursula Meier

Una contemporanea Mater Dolorosa

L'inserimento in ampi spazi panoramici dello svolgersi della vita per Simon e la presunta sorella, non solleva dalla realtà pnubea nella quale i due vivono. Il cromatismo coerente e reale amplifica l'ineluttabilità del procedere comunque della vita che se per qualcuno e fatta di benessere che trasuda e spiega se stesso nella brillantezza della vita nella stazione sciistica, per altri è fatta di una miseria inimmaginabile visibile solo all'interno di un palazzone popolare. La dominante sonora è il silenzio, interrotto da qualche brano con modulazione dolce, spesso chitarra, che smorza la crudezza che via via si concretizza nella conoscenza di come vivono i due giovani. Molto si può intuire, moltissimo si apprende nel corso del film e sorprende. Se pesantezza e indolenza sono le dominanti di Louise, ineluttabilità e perseveranza sono quelle di Simon. Nessuno dei due ha in sè un briciolo di allegrezza, di speranza, di slancio giovanile: gli unici sprazzi di risa scaturiscono da situazioni casuali, da momenti giocosi infantili, non per situazioni che dovrebbero appartenere all'età dei due. Situazione difficile che si spiega pian piano e sorprende dopo che un trailer sapientemente ambiguo, aveva lasciato pensare a ben altre situazioni tra Simon e Louise. La violenza che la situazione contiene in sè, qui non esplode come classicamente si potrebbe pensare esploda la violenza, ma è sottomissione all'incapacità di uscire dalla mota, alla coscienza di non avere altre possibilità. Così Simon continua caparbiamente a rubare come caparbiamente Louise cerca di risolvere la sua situazione sociale con un amore peraltro sempre disgraziato come lei. Non c'è neppure spavalderia ne nell'uno ne nell'altra e nemmeno rabbia solo dolore: quello di Louise per una situazione che non sa come risolvere - pur non essendo lei come donna, tanto marcia da approvare o spingere verso sistemi sporchi - e quello di Simon che con i suoi furti vuol comprare più che il pane, l'amore, l'essere accettato in un mondo dove si trova senza capire, per chi lui è. I primi piani sono intensi, i dialoghi sono plausibili, le figure di contorno non scadono mai nel banale - ed è in questo che consiste una delle sorprese: sono reali persone inaspettate, non soluzioni da rotocalco. Una contemporanea Mater Dolorosa che non sostiene, ma si rispecchia muta in ragazzino dodicenne immerso anzitempo nella condanna alla solitudine del mondo, condanna sublimata nella drammatica staticità della scena della notte che Simon passa alla stazione sciistica ormai smobilitata, nel buio totale, nel silenzio della montagna, al freddo, lontano da tutto ciò che dà senso all'esistenza. In questo quadro di ineluttabile negatività, un guizza di vita: Simon è pur sempre ancora un bambino che sente e risponde alla natura e dimentico di ogni cosa, corre, salta, gioca da solo nel grande spazio della montagna ora tutta per lui anche se è un poveraccio. Ma questa vaga risorsa non è la fine e non è un preludio all'ottimismo, la possibilità positiva o negativa di un futuro, si riapre - e rimane insoluta - con l'incrociarsi di due cabine della teleferica, cabine che corrono in due sensi opposti e s'incrociano: in una c'è Simon e in una c'è la Louise che potrebbe per età essere proprio sua sorella. Grande recitazione sia di Luoise, corrucciata, dura e fragile e di Simon, testardo, infantile dal grande cuore bambino. Scelte calibrate nello scorrere del ritmo senza sobbalzi, nella piattezza della condizione che non cede ad altri che alla sua piattezza sottolineando così la mancanza di alternative reali: ne dramma, ne commedia, non c'è posto nelleno per una barzelletta. Così è per alcuni, senza soluzione di continuità.

Il primo uomo - di Gianni Amelio


la luminosità sulla violenza della storia


Film che aveva tutte le possibilità di risultare pesante per la lentezza con la quale è stato scelto di far scorrere tempo e immagini, si risolve altresì in un equilibrio di passaggi e di tenute in scena che lo rendono estremamente gradevole e fluido.
La fluidità è quella che contraddistingue le elissi temporali del ricordo, con passaggi naturali dei movimenti di macchina che sorprendentemente porta in altro tempo nello stesso luogo senza particolari traumi anche se la scena è vista con gli occhi di un bambino mentre il racconto, voce over, è dell’adulto.
Altra modalità sostenuta per tutto il film la musica.
Brani musicali per strumenti diversi, ma dolci senza essere struggenti come il suono della corda sola di chitarra, potrebbe suscitare., accompagnano scene diverse che rimangono racchiuse in un preciso ambito emotivo, accompagnando il racconto.
Molto bella e curata la fotografia, le inquadrature precise, non ossessivamente spinte ma sufficientemente portati i primissimi piani per sentirne la vicinanza. E poi gli azzardati e molto costruiti controluce. Con la particolarità di una notevole sovraesposizione, l’atmosfera per tutto il film è estremamente luminosa, non c’è mai in essa un momento di pesante drammaticità, nemmeno negli eventi più cruenti; la prigione: sulle pareti c’è l’umidità, la muffa, i corpi dei prigionieri sono ammassati, ma è quell’ammassarsi, quell’essere scossi dalla luce di una torcia che fruga tra loro come fossero fagotti, sono quegli sguardi che ridanno il dramma, non la mancanza della luce. A volte pare che il paesaggio sia virato, ma l’effetto è solamente della desaturazione del colore; altre lo scenario dietro al soggetto è particolarmente sfocato, ma il bianco accecante delle architetture fa più propendere, appunto, per la scelta della sovraesposizione.
Lo studio fotografico si completa con l’orizzontalità delle inquadrature, che sembrano evitare accuratamente ogni elemento che crei prospettive accentuate.
Pare che il tempo sia scandito con modalità contenute in ritmi aurei e senza sobbalzi violenti. Eppure la violenza c’è, è contenuta in questa storia fatta di ambiente difficile per la convivenza di due etnie; violenza di modalità di vita modesta al limite della miseria più bieca per cui un bimbo resta scalzo per risparmiare le scarpe;  violenza della nonna-matrona terribile fisicamente e caratterialmente; violenza dei bambini che sono generosi in quell’età solo nella letteratura ottocentesca; violenza per la storia del reale che qui viene ricordata.
Tutta questa violenza trova una sedimentazione nel racconto fatto senza partecipazione animosa della voce over e solo così può essere tramandata senza conservare l’animosità della vendetta.

Cosa piove dal cielo? - di Sebastián Borensztein.

una semplice sorpresa di qualità

E' uno di quei film che senza avere pregi altisonanti nel proprio contesto e che già di partenza sceglie una tematica non eclatante, raggiuge ottimi livelli qualitativi. Tutto svolto nella solitudine palpabile del protagonista Roberto, segue le modalità ovattate dell'allontanarsi dalle possibilità coinvolgeti che creano le altre persone: il protagonista conosce i suoi limiti di sopportazione dei suoi stessi sentimenti, per cui adotta un preciso modo per difendere la sua fragilità. Pare che l'introduzione al film, la mucca che piove dal cielo nella terra d' Oriente, sia infinitamente lontana da una possibile storia che inizia subito dopo con la presenza di Roberto. Non è la ricerca della sensazione che caratterizza questo film, ma è l'assurdità delle possibilità e tanto sono più assurde, in quanto avvengono in un contesto assolutamente normale. Si possono riconoscere i comportamente e situazioni reali, inconcepibili, anche se per gli spettatori seduti davanti allo schermo appaiono come ovvietà risolvibili. Ma la realtà non è quella dello spettatore che la sta a guardare, ma quella dell'assurdità quotidiana. La colorazione densa mentenuta dal regista, crea un contatto fisico con la problematica del protagonista, tanto da far percepire i suoi stessi sentimenti sia nella solitudine casalinga sia dietro al banco di lavoro - la grande e liberatoria soddisfazione nel cacciare dal negozio il cliente insopportabile - facendo scattare immediatamente l'identificarsi con lui. Nessuna ricerca stilistica che predomini, ma è questo equilibrio che dà uno spessore umano accettabile e comprensibile con un ritmo lento che è quello di chi vive solo. Un lavoro di pittura progressiva che si struttura con quadri successivi, pian piano contribuisce a creare moduli sugli stessi personaggi, per cui si aspetta l'azione e non è tanto importante scoprire ogni volta l'ambiente dove si svolge l'azione.
Ciò che è scontato non avviene; a conferma di ciò, l'immagine, la pittura finale, l'inquadratura che alla fine del film si aspettava come conlusione lievemente annunciata, trattandosi del possibile saluto di ringraziamento fatto da un cinese che amava le matite. Un piccolo colpo di genio, spiazzante per il suo essere al di fuori dell'immaginario : una mucca con naso enorme legata ad un linguaggio contemporaneo, quello fumettistico, che fino a quel momento era stato solo appannaggio del raccontare, degli aneddoti di cronaca rigorosamente collezionati dal padre del protagonista e da chiunque immaginabili in modo caricaturale.Una mucca accativante che sorprende in un silenzioso film di qualità.

To rome WitH LoVe - di Woody Allen

difficile accettare che sia di Woody

Immediata è la sensazione che qualche cosa non funziona. Poi si riesce a codificare il primo dei diversi elementi che non corrispondono all’altezza qualitativa di un conosciuto Allen. E’ il sonoro il primo elemento che appare dissonante, come fosse scollato dal film e questa particolarità è permanente anche se appare minore. Difetto del doppiaggio ? Certo non aiuta ad entrare con disinvoltura nel racconto.
La scelta degli interpreti sembra per presa visione di un copione a capitoli separati dal cartonato: ognuno con la sua storia. Sono attori e non che forzosamente incarnano il personaggio, non tanto per la recitazione, ma perché fisicamente ne sono lontani come atteggiamenti propri e recitati.
Lo stesso si può dire per la scelta di Roma come location di riferimento : scenario che ha poco a che contribuire alla costruzione della storia e quando ne diventa partecipe è nello sdolcinato stralcio del tradimento nella storia amorosa tra Jack e Sally: scenario di lampi e tuoni che sarebbe più efficace se raccontato dalla voce di Allen che nella scenografia realizzata e decisamente banalizzata.
Il famoso architetto americano John, appare come reale, scompare come fantasma, ma ci potrebbe stare se avesse un copione da seguire che in qualche modo lo collegasse all’ironia alla strampalatezza woodiana, ma il suo faccione cortisonico più che imbambolato, non è nemmeno adatto e come non lo è quel corpo pesante che si alterna nelle scene senza collegamento alcuno, ma non per questo non comparato, agli isterici movimenti dello scattante Woody, pone la domanda sul perchè di quella scelta.
Una storia di una coppia con tradimento, una storia di un’innamoramento tra un’americana e un italiano, una storia di un’improvviso successo. E ancora una storia di una coppia sprovveduta ma maliziosamente coinvolta senza quel pizzico di sano pruderie, e di un' ingenuità come ormai non se ne trovano nemmeno nei paesi più isolati della terra.
Si cerca un percorso senza trovare altro che un debolissimo filo conduttore che non è sufficiente a dare solidità allo spezzattamento del racconto che procede per tratti paralleli ignorando le elissi temporali più logiche.
Nei film di Allen anche le situazioni più sconnesse appaiono logiche perché inserite in un contesto stilistico riconoscibile e pertanto codificabile, ma in questo film la paccottiglia narrativa è prevalente sulle poche scene apprezzabili. Buona l’idea creata per Benigni e Benigni la regge bene interpretandola con disinvoltura in un surrealmente reale oggi. Qui più che la morale è la constatazione di come stanno le cose e viene fatto in modo fluido per cui anche le assurdità assumono quel valore di filmica realtà.
Pur cucito su misura l’episodio che riguarda Woody, anche se fa parte della storia n° 2, stilisticamente non ha nulla a che fare con il resto del film e dà l'impressione di percorrere una sua personale strada per trovare un riscatto tra nani e ballerine che in un qualche modo l'hanno ingurgitato, ma che ora trova modo di ridicolizzare seppur con un'impossibile doccia in palcoscenico.
Un film che perde molto in dignità sia stilistica complessiva che interpretativa da parte dei personaggi secondari tutti molto poco partecipi del loro ruolo se non come comparse. Pollice verso con dispiacere per un Allen che pare sia stato presente, ma occupandosi molto poco del risultato di questo film.

Piccole bugie tra amici - di Guillaume Canet

agra realtà che si ripete per ogni vita

154 minuti che scorrono con un ritmo molto ben calibrato nelle storie intrecciate tra i personaggi. Lo spettatore non giovanissimo, può facilmente ritrovare molte situazioni della propria vita, quando si trovava in quel periodo particolare che comprende gli anni di passaggio tra la fine della giovinezza ancora spumeggiante e l’accorgersi che la vita, che si voglia o meno,  è anche una cosa impegnativa

La caratteristica di qualità del film francese, qui si trova a pieno : nella ricerca del casting, i personaggi sono stati scelti con una tipicizzazione che immediatamente ne dà una connotazione scegliendo con cura i volti, il fisico degli interpreti, cosicchè le supposizioni che si possono fare sul loro carattere, sono giustamente azzeccate. Questo già coinvolge lo spettatore che inevitabilmente ricorda come nel proprio gruppo ci fosse il beota che pensa solo a se stesso, il narcisista schiacciasassi falsamente generoso, la petulante moglie e via dicendo. Qui si trovano molto ben delineati una galleria di personaggi tutti molto plausibili : senza gloria e senza infamia come gran parte delle persone lo sono.

L’inizio è tragico, ma ancora più tragica è la domanda che si fanno gli amici del gruppo per i quali la vacanza è un rito che li accomuna nella reciproca conoscenza e accettazione più o meno sincera dei difetti. Sorge spontanea la domanda: cosa avremmo fatto noi in quella situazione di scelta tra il non abbandonare un amico in ospedale e il non perdere la vacanza annuale. Già questo avvio, dà la netta percezione dell’altro grande pregio del film : i dialoghi. Il linguaggio usato da tutti i protagonisti è estremamente reale e non fa una sbavatura sperando sia una traduzione fedele dell’originale. Così si può godere di dialoghi molto pertinenti nei quali ci si può ritrovare. Di conseguenza gli aspetti caratteriali sono molto ben equilibrati e non rischiano l’aspetto caricaturale.

Molto realistiche le situazioni, tutte ammissibili, o quasi se non fosse per quell’epilogo romantico che vede per protagonista l’unico estraneo al gruppo, l’uomo di mare, quello che il mare lo viveva davvero e sempre, non solo come vacanza. Questo personaggio, alla fine, così romanticamente presente al funerale dell’amico di tutti, che rovescia un sacchetto di sabbia sulla bara, è sopra le righe, fuori anche come tempo/spazio fisico tra la casa e la chiesa - pur percorso in auto a velocità stratosferica - e appare come una presenza, l’unica forzata per un accenno romantico, da rosa di plastica..ma..ma.. Anche da rosa di plastica è lo scontato – reale molto scontato – dolore degli amici, di chi si è goduto la vacanza con le solite modalità e con le solite modalità perbeniste scopre che chi è morto era “una brava persona, era il migliore di tutti noi”. Così con questa prassi realissima, colui che all’inizio del film già si presenta come agnello sacrificale, pur imbottito di alcool e di droga, riceve il suo tributo alla fine, assolto dagli amici crapuloni che a loro volta si assolvono perché un morto al quale dai il tuo tributo, automaticamente non può che assolverti.

Bella storia, bel ritmo, belle riprese, bei personaggi, belle situazioni della nostra brutta realtà. Puntualizzazione : è una storia degli anni ’80 perché non si può considerarla storia contemporanea e per i dialoghi e per le situazioni che oggigiorno sarebbero senza dubbio vissute con molta più dissipatezza e leggerezza morale.

Pollo alle prugne - di Vincent Paronnaud

Il mancato coraggio di sperimentare

Il film appartiene a quella categoria che viene definita “ti deve piacere il genere”, vale a dire cioè qualche cosa al di fuori della “costituzione” che guida la maggioranza dei film.
I personaggi – veri – si muovono in una scenografia che cambia molto stesso scivolando disinvoltamente in mutazioni totali. Inizialmente e per la maggior parte del film, è costruita come dovesse poi essere realizzata sulle pagine di un libro : molte ombre che celano gli spazi inutili degli ambienti, luci che spaccano improvvisamente il buio come lame sinistre, personaggi illuminati da profilature di luce come la migliore grafica propone suscitando al contempo sentimenti e aspettative.
Ombre e ombre: dalle tonalità calde ma a volte fredde anche se pastellose, un’angoscia che mielosamente avvolge tutto il percorso dello sfortunato protagonista impedendogli un percorso felice nonostante abbia il genio della musica.
Improvvisamente - ogni tot - la scenografia cambia: un giro di pagina e il paesaggio in tinte pastello immerge in se stesso figurine ritagliate e altre forme fantasiose di cortoon però sempre creature del mondo della grafica per libro. Ma questo non crea un ritmo.
Tutto questo sfondo che racchiude i personaggi, spezzetta la storia che fa salti - in avanti e indietro nel tempo - più che elissi, presaga-racconta il futuro dei figli, ricorda-precede il passato-il domani.. tutto questo è un percorso labirintico che va diretto verso l’uscita, ma che nel suo procedere tende a confondere la storia mescolando le carte tutte contemporaneamente sul tavolo. Lo fa con maestria, senza eccedere e non occorre un eccessivo sforzo per tenere il bandolo della storia, ma è pur sempre una complicazione fine a se stessa. E’ una complicazione per tre quarti del film che risolve tutto quanto nell’ultima parte.
Il ritmo lento ripropone il tempo della lettura più che della visione cinematografica. La sceneggiatura è calibrata su questa tipologia e i personaggi si muovono, agiscono, parlano più con un approccio da fumetto che da personaggio reale quale si presentano. Ottima l’espressività del protagonista e dei due bambini, soprattutto del bimbo, petulante e dolcissimo, perfettamente ritagliato nella tipologia dell’età e nel rapporto genitori-figli.
Nell’ultima parte si riprende il bandolo della storia dall’inizio per ripeterla paro paro, ma semplificata e ordinata, come cartelle grafiche didattiche.
In fondo è una storia banale: un amore quasi alla “Zivago” un amore infelice perché non permesso e tutta la complicazione nel raccontarlo della prima parte, pur essendo azzardata, potrebbe da sola reggere un film, ma se si vuole azzardare sperimentando, perché cedere all’esigenza di spiegare il tutto prima di mettere sul film la parola fine?
Il film appartiene a quella categoria che viene definita “ti deve piacere il genere”, vale a dire cioè qualche cosa al di fuori della “costituzione” che guida la maggioranza dei film.
I personaggi – veri – si muovono in una scenografia che cambia molto spesso scivolando disinvoltamente in mutazioni totali. Inizialmente e per la maggior parte del film, è costruita come dovesse poi essere realizzata poi sulle pagine di un libro : molte ombre che celano gli spazi inutili degli ambienti, luci che spaccano improvvisamente il buio come lame sinistre, personaggi illuminati da profilature di luce come la migliore grafica propone suscitando al contempo sentimenti e aspettative.
Ombre e ombre: dalle tonalità calde ma a volte fredde anche se pastellose: un’angoscia che mielosamente avvolge tutto il percorso dello sfortunato protagonista impedendogli una vita felice nonostante abbia il genio della musica.
Improvvisamente - ogni tot - la scenografia cambia: un giro di pagina e il paesaggio in tinte pastello immerge in se stesso figurine ritagliate e/o altre forme fantasiose di cortoon però sempre creature del mondo della grafica per libro. Ma questo non crea un ritmo.
Tutto questo sfondo che racchiude i personaggi, spezzetta la storia che fa salti - in avanti e indietro nel tempo - più che elissi, presaga-racconta il futuro dei figli, ricorda-precede il passato-il domani.. tutto questo è un percorso labirintico eppur va diretto verso l’uscita, ma nel suo procedere tende a confondere la storia mescolando le carte tutte contemporaneamente sul tavolo. Lo fa con maestria, senza eccedere e non occorre un eccessivo sforzo per tenere il bandolo della storia, ma è pur sempre una complicazione fine a se stessa. E’ una complicazione per tre quarti del film che si risolve tutto quanto nell’ultima parte, con un riassunto e in un modo lineare.
Il ritmo lento ripropone il tempo della lettura più che della visione cinematografica. La sceneggiatura è calibrata su questa tipologia e i personaggi si muovono, agiscono, parlano più con un approccio da fumetto che da personaggio reale quale si presentano. Ottima l’espressività del protagonista e dei due bambini, soprattutto del bimbo, petulante e dolcissimo, perfettamente ritagliato nella tipologia dell’età e nel rapporto genitori-figli.
Nell’ultima parte si riprende il bandolo della storia dall’inizio per ripeterla paro paro, ma semplificata e ordinata, come cartelle grafiche didattiche, si mette ordine alla composizione del libro.
In fondo è una storia banale: un amore quasi alla “Zivago” un amore infelice perché non permesso e tutta la complicazione nel raccontarlo della prima parte, pur essendo azzardata, potrebbe da sola reggere un film, ma se si vuole azzardare sperimentando, perché cedere all’esigenza di spiegare il tutto prima di mettere sul film la parola fine?  Il film non può diventare libro senza perdere l'energia propria, la vitalità essenziale per essere film, cosa che l'aggiunta finale gli toglie.

Hugo Cabret - di Martin Scorsese

L'automa e la locomotiva

Visto in lingua originale, si possono apprezzare le interpretazioni dei due bravissimi ragazzini. Tantissima grafica, tantissima scenografia, tantissima magia. I personaggi si muovono in una spazio che ruota loro attorno, fisicamente e psicologicamente, ma nulla ci appare lontano se è nostra la capacità di immergerci nel fantastico.
Eppure tutto è reale, tutto è possibile, tranne lui, il ragazzino che rimasto solo al mondo, ignora superandole le barriere reali delle necessità umane. E’ lui che dunque fa da trait d’union nella magia della realizzazione di un sogno. Fluido nelle logiche e nei dialoghi, fluido nelle riprese che seguono un ritmo che alterna velocità a pause senza un ritmo schematizzato moralmente, ma seguendo gli eventi e raggiungendo il plot, senza far sentire il peso degli oltre 120 minuti di proiezione.
E’ qualche cosa che non ha necessità della visione in 3D perché la “piattezza” grafica è del tutto superata dalla quantità di elementi fantastici ai quali prestare attenzione e che scorrono come paesaggio di un vissuto che potrebbe essere nostro ed è senza tempo. I personaggi sono disegnati secondo i canoni del buono e del cattivo, ma senza eccessi.
Nella storia tutti i personaggi sono riportabili a fisonomie umane e questo la dice lunga su come non sia necessario ricorrere a personaggi extraterrestri dagli occhi grandi viventi in mondi colorati e lievi, per liberare il mondo dei sogni umani. Tutto giocato sul vero e non vero tra panoramiche volanti di grande respiro e riconoscibili ambienti familiari, si completa in quella realtà che è estremamente umana del dimenticare e non riconoscere la grandezza del genio che abbiamo accanto. Un accento preciso su di una realtà amara che anche nel mondo del cinema ha avuto dei riscontri e non a caso è stata inserita in questo totale omaggio al cinema stesso. Solo ad una più approfondita lettura, chi ne ha la capacità può scoprire che.. : stupisce l’invenzione dell’automa metallico, ma solamente se non se ne fa un parallelo con l’invenzione di quel mostro di ferro, la locomotiva, che spaventò tanto i primi cinespettatori: è il cinema il nuovo che arriva, ed è il cinema l’alter-ego di chi si siede in poltrona ad assaporarlo, e come non poteva essere quindi, prima della sua invenzione, un piccolo automa l’alter ego dell’uomo/padre che il giovane Hugo vuol salvare per proiettarsi in esso ?

CESARE DEVE MORIRE - di Paolo e Vittorio Taviani

L'intensità dell'errore umano
Se questo film all’estero verrà ascoltato non in lingua originale, ma doppiato, perderà la possibilità di lettura dello spessore dei “non attori”: un doppiaggio toglierebbe a tutti – tranne ad uno, talento naturale che difatti poi continuerà nella recitazione – quella incapacità di recitare da attori in quanto essi non lo sono. E’ proprio attraverso questa evidente difficoltà che il netto scollamento tra l’intensità espressiva dei volti dei gesti degli atteggiamenti e il recitato, è possibile prendere atto del bagaglio umano reale dei detenuti-attori.
Certo, il bianco/nero, gioca un importante ruolo, ma quei volti sono volti di uomini che trattengono in sé un vissuto disastroso e questo bagaglio dà un’espressività da grande attori, ma loro non lo sono, quindi quest’espressività è il loro patrimonio reale.
Grande capacità dei Taviani di non lasciarsi trasportare e contenedo l’emotività entro i binari di una finalizzazione filmica, ottengono un risultato di eccellente equilibrio consentendo a questo patrimonio di non disturbare, ma di essere assolutamente nella logica.
Una costruzione teatrale molto precisa, primi piani molto costruiti in un’immobilità più da palcoscenico che da set, tutto rientra nell’ambiguità della scelta del soggetto e cioè di far recitare un lavoro teatrale all’interno di un lavoro filmico e delle sue esigenze.
Le figure marginali dei carcerieri, sembrano appartenere ad un’altra storia, ad un altro film, rivelando l’ottusità dei regolamenti e i punti di vista contrastanti anche all’interno di queste istituzioni.
Lo strazio del dramma umano di chi ha commesso un errore e deve subirne le conseguenze, è fortemente rappresentato nella sua violenza nella scena “asonora” , scena ripetuta come un modulo dell’arte concettuale  dove i cambiamenti sono minimi : il n° della cella, il personaggio che vi entra, ed è nella freddezza della ripetizione il dramma dell’inesorabilità della mancanza di libertà che il fil ci comunica; un togliere la vita diverso, ma sostanzialmente uguale a quello consumato su Cesare.
La tematica della ripetizione scespiriana in quel sito diventa così una seconda lettura di un film socialmente importante.

A Simple Life  -  di Ann Hui

La devozione e la desolazione

La lettura impossibile a non farsi per questa pellicola, è quella relativa alla tristezza mortifera della vecchiaia e con essa tutto quanto di più degradante in essa ci sia. Non ci viene risparmiato nulla di questo aspetto della vita umana e alla fine del film, non ci si riesce a liberare dell’odore sgradevole di questa parte della vita.
A poco valgono le situazioni di un’ affetto riconoscente del giovane protagonista, l’attore Roger, nei confronti della donna che l’ha allevato: questo è il tempo della nostra realtà sociale per la quale da vecchi siamo un peso ad occidente come ad oriente. La città con la sua vitalità non appare se non per squarci molto poco consolatori e a poco serve sapere che queste situazioni non appartengono alla nostra cultura perché dobbiamo riconoscerne inesorabilmente la realtà anche se con apparenze diverse. In questo rapporto fisico con la città e l’ambiente che accoglie l’ anziana domestica, c’è una parità scenografica: nessuna delle due incombe sull’altra, è un procedere con pari peso e valore verso un destino che è comunque segnato dalla fine.
La protagonista procede con la sua devozione con un senso del legame che esclude ogni possesso materiale, un legame più costante e forte di quello materno che appare tiepido e limitato. Il legame è ricambiato e nei loro incontri parchi di parole: è più il non detto che crea quel poco di magia che rischiara il film. Le situazioni drammatiche o felici, si inseriscono come grumi a sé, come la telefonata alla donna da parte degli amici del protagonista, che l’hanno conosciuta e frequentata da ragazzini, pagina molto bella nella vivezza del racconto; di contro gli eventi negativi sono lanciati in quel mare piatto che procede verso la riva che è la vita di  Ah Tao, sprofondando pesantemente senza lasciare conseguenze (come la morte di una delle ricoverate nell’ospizio).
Se nel doppiaggio si perdono probabilmente le espressioni tipiche del linguaggio cinese, un momento poetico si può trovare nella gestualità di questa piccola donna e proprio quando per rispondere ad una domanda scherzosamente provocatoria del suo padrone : “hai intenzione di sposarti”, emerge l’orientalità di lei che si schernisce con un indietreggiare fatto di passi che sono movimenti di danza, respingendo con le mani un argomento che pudicamente, appunto in modo orientale si affronta così.

QUASI AMICI  di Olivier Nakache, Eric Toledano
Quasi non ci si potrebbe credere
E’ indispensabile l’informazione iniziale che rivela come il film sia tratto da un fatto realmente accaduto : se così non fosse, non ci si potrebbe credere, ma farebbe comunque la felicità dell’esercito dei buonisti.
E’ molto difficile trattare argomentazioni dove l’incidente ha portato ad una tale disgrazia per cui la vita perde ogni ragione di essere tale, ma ancora di più è difficile se l’oggetto della disgrazia è una persona ricca.
Indubbiamente il film conferma il detto che è meglio soffrire da ricchi piuttosto che da poveri e lo fa guardando la situazione dal di fuori in una sorta di spersonalizzazione dei sentimenti più contraddittori e laceranti, alleggerendo così la realtà del dramma, focalizzando l’attenzione sulla lievità del rapporto che si viene a stabilire tra l’incidentato e il suo badante.
La bellezza del “badante” è superba talmente tanto da essere accettabile anche se sopra le righe come scelta di casting, ma non si oppone con altrettanta qualità - assumendo pertanto un possibile simbolismo - ad una qualche repellenza, di ugual peso, del paraplegico : anche il paraplegico è bello e se non fosse menomato avrebbe tutte le caratteristiche dell’affascinante uomo di stile, ricco e forse anche antipatico dato che, come dichiara – è-era un uomo che sfidava sempre se stesso, quindi ammissibilmente con un pizzico di presunzione ed arroganza. Già si delinea così una non presenza di posizioni decise nella scelta dei personaggi e poi nelle situazioni successive che rimangono in un limbo dove la pietà e l’irruenza giovanile trovano un modo di convivere più unico che raro se così è andata la storia.
La situazione sociale del giovane, pur intendendo che è precaria, che è problematica, che non ha prospettive esaltanti data la sua provenienza, tutto questo appare assai poco, è appena appena sfiorato e rimane –il giovane fratello è chiaramente coinvolto in qualche cosa di losco – in una vaghezza irreale.
Il ritmo sostenuto pur non sciolto nello svolgersi della storia, l’allegria e la dolcezza degli occhi del badante, la dignità e la capacità di essere comunque acuto e pungente dell’assistito, le diverse situazioni della vita affrontate, sono dei bei quadretti, ma tutte storielle a se stanti, non creano un nocciolo dall' impatto forte, un nucleo intorno al quale si dipana la storia che invece va da sé perché così si sa che è accaduta, ma nel film, non appassiona per una semplice questione di punti di osservazione come la scena del ballo che, pur essendo potenzialmente travolgente, non viene “mostrata” dal di dentro: questione di tipologia di ripresa. Troppo qualunque.
Molto buoni i dialoghi che con l’interpretazione degli attori, riescono con quelle battute, ad essere perfettamente addentro a momenti di grande spontaneità provocando ilarità e divertimento del tutto spontaneo e motivato.
A volte buona la fotografia, molto buona la colonna sonora pur non essendo nulla d’innovativo.

EMOTIVI ANONIMI   -  di Jean-Pierre Améris
manca più di un ingrediente nella ricetta filmica

Attori, sia protagonisti e non, molto espressivi negli sguardi, nella mimica, negli atteggiamenti;scelte felici nelle inquadrature; personaggi ben caratterizzati fisicamente (per forza, il film è francese). Il soggetto è interessante, molto, e direi ammissibilmente attuale in questo mondo di non timidi e di emotivi scarsi, eppure qualche cosa NON funziona. Il trailer e l'argomento hanno creato aspettative e probabilmente il film aveva una costruzione completa, ma ciò che si vede sullo schermo, manca, manca di qualche cosa che faccia uscire dalla visione soddisfatti. Questo senso di insoddisfazione, al di là della brevità del film stesso, cosa che non vorrebbe dire niente in sè, è dovuta a due motivi. 1°: la mancanza di un plot forte, individuabile, pche faccia sì che tutto quel che accade è sullo stesso piano nel dare agli spettatori emozioni. Tutti gli eventi sono emozionalmente suonati con la stessa corda medio-alta. E' la mancanza di un distinguo, che non mette l'azione in uno stato di crescita: l'aspettativa non ha mutamenti, vegeta. - 2° manca totalmente di quel fluido che collega i fatti, creando l'intervallo durante il quale l'evento matura, procede o si affievolisce per l'azione sui personaggi stessi. Non ci sono passaggi tra scena e scena, che diano la possibilità di filtrare, assaporare, quel che è appena successo. Così le espressività suscitate degli eventi, sembrano maschere che non vengono smesse perchè metabolizzate, ma si sovrappongono a nuove maschere espressive per il nuovo evento.
Da cancellare la scena fuori senso, del balletto di Angélique, del tutto scollegata e gratuita, mentre invece ci stà l'esibizione canora di Jean-René che rientra in un contesto che non ne altera impostazione e non ne è alterato, mentre al primo exploit canoro, sembra di entrare senza volerlo in un musical. La trama è prevedibile in alcune scelte di successione di avvenimenti, ma pure questo non sarebbe penalizzante se il film fosse stato realizzato con il respiro che sembra manchi tra scena e scena, tra evento ed evento come se fossero state soppresse delle scene per motivi sconosciuti.Deludente.

Gennaio 2012